Il tempo: un’attenta analisi dei ricordi colloca l’episodio nel tardo autunno del 1936 in un freddo e buio pomeriggio. Il luogo: casa mia in via Giambellino e il lazzaretto in zona Palestro. Il fatto: nella mia memoria ci sono quattro momenti ben distinti.
Il primo: sono in braccio a mia mamma, avvolto in una coperta, che sta uscendo di casa, è buio e freddo, non so perché ma sono convinto sia pomeriggio. Cammina verso il cancelletto che dà sulla strada ed esce. Vedo un furgoncino nero senza finestrini, da adulto l’ho paragonato a quelli della polizia segreta. Ad attenderci un uomo. La mamma mi consegna all’uomo che subito sale sul retro del furgone, chiude la porta e parte. Ricordo di non aver pianto, l’uomo mi disse che andavamo in un posto dove sarei guarito. Dell’arrivo non ricordo altro.
Il secondo: una grande sala rettangolare. Un lato lungo è tutto finestrato con tanta luce e sole. Sull’altro lato lungo una decina di letti, sui lati corti quattro letti e le porte. Eravamo tutti maschi. A letto dovevamo stare con le braccia sopra la coperta ben distese, immobili, non una piega sulla bianca coperta. Nel silenzio più assoluto entrava il medico, mani sprofondate nelle tasche del grembiule bianco, con passo lento e solenne, seguito dalla suora capo che annotava quanto diceva. Ci tastava la fronte, ci guardava in gola, la pancia. Appena se ne andava la suora gregario riordinava tutto per bene e fermi tutti.
Il terzo: la visita di mia mamma. Il giorno di visita la suora ci vestiva a che non prendessimo freddo e ci disponeva davanti ai finestroni tutti appaiati; a questo punto arrivavano nel giardino di fronte una schiera di mamme e papà che cercavano di vedere i propri figli dietro i finestroni. Non potevamo sentirci. Molti piangevano, genitori e figli.
Il quarto: su uno dei lati corti c’era un bimbo coi capelli rossi-rossi, stava molto male. Quando venivano i suoi genitori la suora lo prendeva in braccio e lo mostrava al papà al di là dei vetri. E qui la scoperta, l’uomo, anche lui con i capelli rossi, alto e grosso, era il vignaiolo che riforniva l’osteria della zia Norma e quindi lo
conoscevo. Mi salutò con la mano. Sapevo perfino dove abitava. Aveva il deposito di vino in una vecchia casa di campagna lungo la strada che da Torre porta a Pontevigodarzere lungo la riva destra del Brenta, avevo accompagnato Marcello, mio cugino figlio di zia Norma, a fare degli ordini di vino.
Questi quattro momenti sono chiari ma non concatenati tra loro. Tutto questo discorso volevo concluderlo con una riflessione. Quando da adulto ricordavo queste cose pensavo alla disperazione di mia mamma Emma a consegnarmi a quell’uomo estraneo che doveva portarmi al lazzaretto. Nei tempi antichi in esso venivano portati e isolati gli appestati. Nel consegnarmi a lui la mamma non aveva certezza di rivedervi.
Ricordavo così la figura di quella mamma che Manzoni descrive mirabilmente nei
Promessi sposi: Quella mamma uscì di casa con in braccio la figlia morta
vestita a festa e la depose con delicatezza sul carro già pieno di morti
di peste e la seguì con lo sguardo allontanarsi al suono del campanaccio
dei monatti.
Concludo: è mai possibile che un qualsiasi NOVAX, colto o ignorante, possa dubitare della bontà dei vaccini?
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!”, libro secondo, nr. 107