1952. Racconterò un episodio che è anche un elemento culturale, educativo della mia formazione giovanile. Ho appena cominciato il servizio militare di leva alla caserma “Turba” in periferia della città ai piedi dei monti Peloritani che chiudono la “Conca d’oro“, così è chiamato il territorio su cui sorge Palermo che va dal Monte Pellegrino con il santuario di Santa Rosalia a Bagheria e sul fondo il comico Monte Acuto, che ho visto bruciare per giorni da metà altezza alla cima, di notte era uno spettacolo. Da quasi un mese eravamo chiusi in caserma per esercitazioni, con qualche uscita, anche notturna, per le marce. Senza libera uscita, molti soffrivano di questa limitazione. Quando fu annunciata la prima libera uscita ci fu fermento. Per molti, anzi moltissimi, era l’agognato momento del “casino”. Tutti avevano fatto indagini accurate sull’ubicazione, orari, costi, modalità, relativamente alla meta.
La prima modalità era riuscire a salire sul primo camion di trasporto truppa, in caserma eravamo in 700, una invasione tra le vie del centro, con lo scopo di raggiungere la meta per primi. È stato uno spasso osservare le strategie adottate per sapere dove i camion sarebbero stati parcheggiati alla partenza e all’arrivo, per studiare i percorsi più rapidi, preziosa la mia piantina topografica della città. Alcuni di noi non interessati, e dirò anche il perché del mio mancato interesse, vedevano dal di fuori la cosa: osservavamo gli anziani e gli istruttori, che già conoscevano le dinamiche, che si divertivano a far partire i camion con cadenze strane, con percorsi diversi, facendo fermate inutili. Quella prima libera uscita non so come sia andata per i frequentatori dei “casini”. Io ho preso l’ultimo camion e me ne sono andato a zonzo per la città in una perlustrazione generale dal porto alla cattedrale, al palazzo dei normanni, a via Maqueda. Successivamente ho suddiviso la città per centri di interesse che avrei visitato con calma.
Perché non ero interessato al “casino”? La formazione religiosa scautistica ricevuta non mi consentiva di percorrere una strada contraria. Non solo, non mi sentivo inoltre di tradire l’impegno preso con la mia ragazza di allora, anche se il rapporto durò pochi mesi dopo la mia partenza. Questo atteggiamento attirò l’attenzione del mio plotone che cominciò a dubitare della mia mascolinità. Tanto che era diventata una scommessa tra loro verificare il mio stato sessuale. Una volta alla settimana, a scaglioni, ci portavano al mare per nuotare all’Isola delle Femmine, bel posto, poco dopo Mondello, la spiaggia palermitana per antonomasia. Qui molti nuotavano nudi e Sergio, quel commilitone che anni dopo ho incontrato per caso a Milano, di cui ho raccontato altrove, un buontempone, mi veniva a stuzzicare per verificare le mie reazioni, comunque tanto fecero che mi convinsero ad andare al “casino”, e scelsero quello della Vucciria.
La Vucciria è il mercato principale della città al minuto di frutta, verdura, pesce, certi pesci spada!, carne, alimentari i più diversi e altri generi vari. Interessante la bancarella che vendeva frattaglie, ossi, nervetti cotti, quest’ultimi appesi a una grande tavola verticale, sembrava di essere al cimitero dei Cappuccini. Di sera col buio la tavola verticale e il banco erano illuminati da una grande lampada, quelle delle lampare da pesca, l’ambiente era irreale anche per il vociare della folla. Poco lontano, in un piccolo slargo alla base della scaletta che congiungeva via Maqueda con la Vucciria, c’era un teatrino dei pupi costantemente in attività, al quale non mancavano mai gli spettatori. Il mercato stanzia su una strada che collega via Maqueda con il porto, larga quanto basta per una bancarella per lato con un passaggio centrale di 1 m, dietro le bancarelle qualche negozio e abitazioni. Le bancarelle erano tra loro adiacenti con uno spazio di mezzo metro utilizzato anche dagli abitanti per entrare nelle loro case, una confusione incredibile, folla, venditori che gridano la bontà della loro merce. Noi, una decina in fila indiana, ci infiliamo tra due bancarelle ed entriamo in un porticino aperto, subito una ripida scala poco illuminata e su in alto una porta a vetri colorati. Apertala, un piccolo tinello con un tavolino con la “signora” che ci fa entrare nella sala. Larga 5 m lunga 10, sullo sfondo le finestre che danno sulla strada, ai lati tre porte per lato da cui si affacciano le signorine, la merce. Noi seduti impacciati sulle panchine poste tra le porte. A mano a mano che gli avventori escono dalle camere la ragazza si appoggia allo stipite e attende il successivo. Uno dei ragazzi in attesa si alza dalla panchina e si avvia, lei lo prende per mano ed entrano in camera. Dopo qualche tempo, 5-10 minuti, lui esce seguito da lei che si appoggia allo stipite della porta e aspetta il prossimo. Interessante è l’atteggiamento di “lui”. Qualcuno esce a testa bassa e se ne va senza commenti come avesse esaurito un compito, un dovere che non si può evitare. Un altro esce sicuro di sé per l’impresa appena conclusa, ancora uno si precipita alla panchina per descrivere con dovizia di particolari l’avvenimento dicendosi particolarmente fortunato di avere trovato una vera professionista. In realtà nessuno mi sembra pago, soddisfatto. Ad un certo punto una “signorina” mi si avvicina e mi passa la mano tra i capelli e mi invita, evidentemente uno dei miei commilitoni l’aveva sollecitata a stuzzicarmi, però non l’ha fatto con molto convincimento, tanto già non le mancavano gli avventori.
Qualcuna, le più vecchie del mestiere e di età, tentano di evidenziare la propria esperienza con espressioni mimiche e verbali, quali quella che si dichiarava “bolognese”, terra prolifica di esperte in quest’arte. Le anziane tentavano di stare al passo con l’avvenenza delle giovani. Ad un certo punto me ne sono andato. La “signora” mi ha guardato sorpresa come a dire: non ti è piaciuta la mia merce? Il rientro in caserma l’ho fatto col primo camion disponibile, perciò con nessuno dei miei compagni di plotone. Nei giorni a seguire si sparse la notizia che avvalorava il sospetto che fossi dell’altra sponda. Dopo due mesi a fine addestramento tutti se ne andarono da Palermo, solo io sono rimasto, pertanto la notizia si spense.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!” Libro secondo, nr. 159