Una delle molte letture della mia adolescenza furono i classici di autori francesi, russi, italiani. Per intenderci, I Promessi Sposi, Anna Karenina, L’uomo che ride. Ma furono molti anche i meno noti, questi costavano meno, non era cosa di poco conto. Oggi sono ritenuti datati, forse non rispondono ai gusti odierni. Il romanticismo ha un sapore tenue rispetto i palati aperti a gusti ben più forti. Sono davvero fuori tempo? Sono scomparse le realtà descritte allora?
Quando ho letto “L’uomo che ride” di Victor Hugo, era questa una maschera tragica come tante altre dei bassifondi parigini, Il gobbo di Notre Dame, di quel tremendo mondo di degrado morale e sociale che, al tempo delle mie letture, non dico fosse scontato ma era nell’ordine delle cose.
La gleba delle campagne russe era ancora in fase evolutiva verso altre forme di schiavitù. I trasferimenti di milioni di contadini dalle terre dell’ovest dell’Europa verso l’est, la Siberia. In quelle letture ero attratto dal romanticismo delle vicende. Il vivere mi ha portato a scoprire ben altri aspetti della vicenda umana.
La storia del Centro Sud dell’America ha molto dei tempi di Hugo in quanto a sofferenze e soprusi. Qualche tempo fa leggevo di Pierre Loti di un suo viaggio del 1900 in India del quale vorrei riportare qualche riga: … e, sulla polvere spessa, altri mucchi umani … si direbbero scheletri … le rotule e i gomiti formano palle … le cosce che hanno un solo osso sono più sottili dei polpacci che ne hanno due … le labbra retratte sui denti.
Più avanti in un altro punto del racconto: … fra le variopinte mercanzie, sono dissimulati orribili mucchi di stracci e scheletri che obbligano i passanti a spostarsi … e ancora … uno straniero si è fermato accanto ad un mucchio di disincarnati immobili e si è abbassato a mettere qualche moneta tra le loro mani inerti… alcune forme scheletriche si rimettono in piedi verso il miraggio di poter mangiare.
Santa Teresa di Calcutta ha riproposte le stesse cose e il mondo ne ha riconosciuto la realtà, ma le ha relegate a fenomeni marginali. Io dico invece che la situazione è ben più diffusa ancora oggi. A pagina 157 del libro “Mi sono sbottonato” descrivo in quattro righe quello che Pierre Loti ha detto con una lunga e articolata descrizione.
Finora ho detto della continuità nel mondo della sofferenza, sembra che l’immenso progresso del benessere non sia riuscito a sfiorare tutti gli uomini. Non solo il benessere non ha raggiunto tutti ma anche il “male assoluto” non ha ceduto il passo e persiste ad esprimersi.
Torniamo a Victor Hugo: “L’uomo che ride” è il frutto di una fantasia dello scrittore per descrivere una reale situazione di degrado morale e sociale. Un chirurgo trasforma il volto di un disperato in una maschera ridente con lo scopo di trarne un guadagno presentandolo al pubblico nelle sagre di paese. Quasi a beffare la miseria e il dolore.
Parallelamente alla descrizione fantastica di Hugo, un racconto ora di avere incontrato una maschera umana reale, viva, dolente, tragicamente dolente. Sono in viaggio in India, non ricordo in quale dei miei viaggi, in quale parte dell’India, però ho un ricordo fotografico del luogo: un massiccio forte, mura possenti, torri d’angolo, un profondo fossato, un largo ponte levatoio. Una larga strada in ghiaino polveroso costeggiava il fossato fino all’imbocco del ponte levatoio. C’era una folta presenza di visitatori indiani, forse pellegrini ad un tempio vicino, pochi turisti stranieri. Come sempre una miriade di mendicanti particolarmente invasivi.
Dietro a questi rumorosi questuanti un essere vivente, solo gli occhi allucinati erano umani, ciò è quello che ho recepito. Provo a descriverlo: un corpo umano al limite di scheletro coperto di pelle raggrinzita, un teschio ricoperto di capelli e barba fra i quali due occhiaie allucinate. Posizionato a gattoni, le ginocchia protette da stracci fungevano da piedi mentre questi ultimi divaricavano in direzioni improbabili. I gomiti, anche questi protetti da stracci, fungevano da altri due piedi, gli avambracci se ne andavano per conto loro, le mani sembravano artigli alle quali era legata una ciotola per le elemosine. Si muoveva a scatti con evidente fatica. Sembrava non avesse nessuno che lo accompagnasse. Nella ciotola qualche monetina.
Di questo episodio ricordo solo quello che ho scritto, non ricordo il prima, il dopo, con chi ero, ne ho trovato traccia nel diario. A volte mi viene il dubbio che sia accaduto.
Quello che so è che a cena ho parlato con la guida che ci disse di esserci ancora, sia pure rari, episodi di genitori che vendono qualche figlio piccolo, ce ne sono di troppo, in sovrannumero, a persone senza scrupoli che
li storpiano ad arte per farne oggetto di pietà.
È davvero triste la conclusione: niente di nuovo sotto il sole.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!” libro secondo, numero 119