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Oggi ho vissuto un’avventura, ho visitato la diga del Vajont, a memoria della tragedia vissuta 60 anni fa. L’ho chiamata avventura per il mio stato di invalidità, sono in carrozzina. Da anni non varco le mura di cinta della città, è stato andare in “terra incognita”. È andato tutto alla grande anche se al ritorno ero sfiancato ma contento.
Per ragioni inspiegabili non avevo mai visitato la diga. Avevo vissuto l’evento con l’emozione di tutti ancor più per il rapporto che avevo da sempre con la montagna, quelle montagne. I figli mi ricordano quanto ho ripetutamente detto loro di quella tragica vicenda. Ogni volta che passavamo per Longarone, ed era spesso in quegli anni, mi ripetevo; il cimitero di Fae con i suoi 2000 loculi, dei morti che arrivarono fino alla foce del Piave, delle centinaia di salme non più ritrovate. Dell’incredibile forza di quell’ondata d’acqua che raggiunto il greto del fiume scavò una fossa profonda una cinquantina di metri, risalita poi la sponda destra distrusse Longarone, cosa strana si salvarono la chiesa e il municipio.
Ora dirò della visita odierna fatta con molta titubanza, mi accompagnano Michele e Rita. Il percorso da Padova a Longarone è stata una sorpresa che conoscevo ma l’occhio non registrava. Nulla riconoscevo di quello che avevo memorizzato negli anni di frequentazione delle Dolomiti. Il percorso è tutto autostrada fiancheggiata da capannoni industriali e abitazioni, la cementificazione del nordest. Il viaggio in bicicletta del 1948 era tutto un rincorrersi di paesetti, di campanili, Camposampiero, Castelfranco, Vittorio Veneto, Ponte nelle Alpi, al termine della salita di Fadalto sono i principali, ma tanti altri, ognuno con il suo campanile, il bar e il salumiere per i panini. Come potranno vivere il territorio, la sua geografia sociale le generazioni future? Ricordo la sorpresa di ritorno dall’Alpe da Fadalto, guardando a sud, delle montagne che degradavano lentamente, vedevamo apparire la pianura e tra la foschia i campanili e i paesetti qua e là. Ho divagato!
Arriviamo a Longarone uscendo da un tourbillon di svincoli rotonde e capannoni industriali che si sforzano di armonizzarsi con l’ambiente montano, in qualche caso riuscendoci. Longarone è così da 50 anni ma per me è tutto nuovo. La ricordo con le case di legno e i fienili. Al caffè, locale moderno, sostano le stesse facce di vecchi perditempo. Riprendiamo la salita alla diga. All’uscita dalla galleria stradale che sfocia proprio alla cresta della diga si presentano tre scenari: sulla sinistra una parete verticale alta 300 metri sulla cima della quale si intravedono le case di Casso, il paesetto che sarà raggiunto dall’ondata di risalita, in parte risparmiato grazie alla parete rocciosa, lassù si sono depositati enormi massi portati dall’immane onda. Sulla destra verso valle la diga, visibile per un’ottantina di metri, gli altri 200 sono ricoperti dal materiale di frana che si erge per altri 350 metri ora ricoperta di pini. Sempre a destra sul fianco del monte Toc si espone l’ampio lastrone di roccia nuda che fu il letto dal quale si è staccata la frana di 250 milioni di tonnellate. Nei pochi momenti della sua discesa emanò un rombo che qualche anziano ricorda, spaventoso, irreale e infine l’onda che risale la parete rocciosa fino a Casso e a monte arrivo a Erto, a quattro chilometri di distanza. L’onda d’acqua scavalco` la diga e in pochi istanti si piantò sul greto del Piave scavando una buca di 50 metri e rimbalzò sulla sponda destra del fiume distruggendo Longarone e causando 2000 morti. La diga rimase illesa, solo la strada adesso a sovrapposta scomparve.
Questo fu il risultato di una vicenda umana fatta di avidità, di errori di valutazione macroscopici, ma anche di indagine oculate che se ascoltate avrebbero potuto darci una storia ben diversa. Ne dico una per tutte. Un giovane geologo, figlio dell’ingegnere capo della Sade, la società proprietaria della diga, calcolo` in 250 milioni di tonnellate il volume della frana mentre il suo professore universitario ne prevedeva 50 milioni. Il padre ingegnere non credette al figlio, oppure per ragioni economiche non gli diede ascolto, da ciò partironno una serie di provvedimenti fuorvianti che si conclusero in tragedia. Pochi giorni prima del collasso un luminare straniero confermò la stima dei 250 milioni di tonnellate. Ormai era troppo tardi. A peggiorare il tutto fu l’errata analisi del materiale costituente la frana, che accelerò la tempistica dell’evento. Non entro in tecnicismi, ci sono documentari e documentazioni tecniche quasi romanzesche di quello che fu la più alta diga del mondo di allora. Una spigolatura la diga è costituita da 300000 tonnellate di calcestruzzo, per le sue fondazioni se ne usarono 400 mila tonnellate. La singolarità delle fondazioni è che non sono a sostegno della base della diga bensì a bloccare le spalle della diga in tutta la sua altezza ai fianchi della montagna.
La diga mostra la sua parte concava a valle. La guida che ci accompagna, Matteo, è figlio di chi ha vissuto quel giorno testimoniando quanto avvenuto nei dettagli, l’immane boato. La storia della diga la conoscevo, avevo ben recepito la dimensione del fenomeno ma visualizzato dal vero è tutt’altra cosa. La dimensione della frana, le distanze, dalla cresta della diga alla base sono 80 metri, sembra altissima, sotto ce ne sono altri 200! Queste sensazioni non si recepiscono dagli scritti. La guida ci ha ragguagliati anche sulla conseguenze sociali di quell’evento, molte industrie fuoriscono ancora oggi nella zona, prima prima fra tutte quella degli occhiali, sono figlie di quella tragedia. Lo Stato ha messo a disposizione della straordinaria laboriosità di quei montanari agevolazioni economiche che trasformarono in benessere sociale. Così come lo furono gli aiuti dati dopo il terremoto del Friuli a quelle popolazioni. Questo è il nord-est d’Italia!
Un piacevole aneddoto. Volevamo mangiare qualcosa a pranzo che non fosse una pizza al salto. Michele aveva letto in rete di una trattoria fuori mano, dai Zater, gli zatterai. Erano gli addetti al trasporto dei tronchi d’albero via fiume per rifornire l’arsenale di Venezia per la costruzione di navi al tempo della Serenissima. L’osteria si trova a Codissago, una frazione di Longarone, è stretta tra le case in una viuzza introvabile. Non ci poteva essere di meglio per rappresentare l’osteria montana anni 50 del secolo scorso. Il telefono, funzionante, con i numeri a disco. Della stessa epoca il cibo: tagliatelle ruspanti fatte in casa alla lepre, formai frit con porcini e pastin, salsicce molto saporite cotte alla piastra, polenta di Storo del vicino Friuli macinata grossolanamente, e per finire panna cotta al caramello. L’interno del locale basso e buio, tutto pieno di ninnoli e suppellettili montane e pentolame di rame. Una grande Stube con le panchine intorno. Il gestore un vecchiardo praticamente muto, ci mostra il menù scritto a mano su una lavagna 70 x 40, col gesso, prezzi decisamente bassi. €42 in tre! In cucina il figlio cinquantenne con una signora cinese, forse la moglie, vivace. Di sfuggita una ragazzina di 13 anni dai tratti nostrani con uno spruzzo del Celeste Impero. Il parcheggio comodo per tre auto ne conteneva nove. Sul confine del cortiletto un pruno, viti, meli e peri, un susino. Una ricostruzione storica di un luogo rappresentante l’epoca del primo dopoguerra!
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!” Libro secondo, numero 189