Il diario l’avevo scritto più di 60 anni fa e me lo ricordo molto fiorito. È andato perduto.
Il tempo agosto 1950
Protagonisti una ventina di scout tra i 17 e i 20 anni
La meta Roma passando per Assisi
Occasione l’Anno Santo
Da molti mesi ci stavamo preparando per la lunga uscita. Così si chiamavano le attività fuori dalla sede del reparto dei giovani esploratori, vuoi quelle di poche ore oppure, come in questo caso, di una decina di giorni. La preparazione riguardava i luoghi da visitare; la logistica: trasporti, alloggio, sussistenza; i materiali; le finanze.
Fra Nazareno
I partecipanti provenivano da due clan: il “Portello” a cui appartenevo con i tre fratelli Pivato e i tre Gambato, Lenzi e Cesare Lotto capoclan, e quello del “San Francesco” con Franceschini e i due Merlin. Ci accompagnava fra Nazareno del convento di San Francesco in città.
Vorrei inquadrare subito la figura di questo sant’uomo che andrà missionario in Sud America fino alla vecchiaia. Alcuni fatterelli che lo riguardano. Alle 11:00 del mattino, lungo la strada che da Arezzo porta a Cortona, facciamo tappa per il pranzo. Si accende il fuoco fra due massi e si mette a cucinare il minestrone o qualcosa di simile. Rimane il cuoco di turno, gli altri vanno a svolgere attività. Al momento di scodellare la zuppa troviamo nella pentola una fascina di erbe e odori vari, rosmarino, salvia, mentuccia, limonella e altre meno conosciute. Fra Nazareno era anche erborista. Da quel momento la pentola non fu mai lasciata sola. Aveva nella sua saccoccia un sacchetto che conteneva una grossa cotica di maiale che utilizzava per ammorbidire certi solchi, ragadi, sui calcagni incalliti dai ruvidi sandali dei frati, quasi sempre sanguinanti.
Una sera a Firenze, la cena era stata particolarmente florida, si allontanò. Dopo un po’ tornò e rovesciò sul tavolo le ampie maniche del saio, uscirono non so quanti meloni e piccole angurie e altra frutta dalla sacca da viaggio che portava a tracolla. Era lui che lungo la strada si infilava nelle case dei contadini e poi ci raggiungeva di corsa. Sapevamo così che qualcosa si sarebbe mangiato.
Firenze
Si parte in treno, prima tappa Firenze. Ricordo poco della città, anche se vista abbastanza bene nei suoi monumenti, compresi gli Uffizi. Ricordo bene certi dettagli: la mitica macchina fotografica dei Merlin, un cubetto di lamiera 10 x 10 x 10 cm il cui rullino si doveva fare avanzare con la pinza.
“Armando passame ea pinsa che gò fatto ‘na fotografia”. Le foto risultano tutte con una linea trasversale bianca, forse dovuta a una crepa della camera che faceva entrare un filo di luce. Ho un nitido ricordo del dormitorio nel convento di San Marco, oggi sede di un importante museo, con affreschi dell’Angelico. Era un sottotetto che conteneva anche delle celle oltre che uno spazio aperto con reti metalliche come letto, l’ambiente era sporco e polveroso, forse non abitato da anni. Per noi andava bene comunque. Faceva il paio con la cena a meloni di fra Nazareno.
Ho citato quel luogo perché 60 anni dopo sono tornato a visitare i dipinti del monastero al San Marco e mi sono trovato in quel locale incredibile. Forse i dipinti erano stati protetti perciò non erano visibili allora!
Riprendiamo il treno per Arezzo, una visita rapida e ripartenza a piedi, meta Assisi. Qui inserisco la descrizione di un tratto di strada fatto dal gruppo, riscritto dal diario originale perduto per il giornalino scout “Lungo la Strada”.
Il Lago Trasimeno
Facciamo tappa a Cortona. Sono di cucina mentre il gruppo fa attività all’interno delle mura della cittadina. È l’ora di pranzo, mi allontano per avvertire il gruppo e, convinto di trovare una porta di entrata alla città, ho girato tutta la cinta muraria. Al mio ritorno al campo il rancio era finito, per me pane marmellata e rimproveri per abbandono del posto.
Arriviamo a Tuoro piuttosto tardi, quasi buio. Troviamo alloggio in una casa di contadini. Una grande stanza nuda con uno strato di paglia, una fievole lampadina penzolava dal soffitto. Gli angoli della stanza rimanevano bui. Per cena il contadino ci dette pane e latte. Io e Toni Franceschini siamo saliti in paese per cercare qualcos’altro. In un negozietto abbiamo trovato del formaggio e tanti fichi secchi in lunghe trecce. Pane, formaggio e fichi a volontà, buoni. A un certo punto uno si alza e va sotto la lampadina e dice: “I fichi sono pieni di vermi!”. Una voce alla periferia della stanza: “Passali di qua che qui è buio e i vermi non si vedono!”.
Finalmente si tenta di dormire. Verso l’alba un urlo “Giorgio, Giorgiooooooo!”. Uno accende la luce e si vede Franco con il braccio teso e la mano aperta sulla quale passeggia uno scorpione. Giorgio con prontezza esemplare colpisce la mano di Franco con uno scarpone, lo scorpione intanto era già caduto sulla paglia provocando un fuggi-fuggi, la mano di Franco rimase dolorante per giorni.
Intanto si è fatta finalmente l’alba. Scendiamo al lago, il Trasimeno era povero d’acqua in quel periodo. Il gruppo di San Francesco decide di fare il bagno. Prendono il largo in barca in cerca d’acqua profonda. Dalla riva osserviamo. Alfredo si tuffa ma non riemerge, Armando prende i piedi di Alfredo che battevano l’acqua e lo tira su, si era piantato sul fango. A riva le risate si sprecavano.
Ci dividiamo in due gruppi per svolgere attività diverse durante il trasferimento a Magione sull’altra riva del lago. Al pomeriggio ci ritroviamo a Magione, entrambi i gruppi avevano barato avendo attraversato il lago in barca, anziché a piedi seguendo un percorso ben più lungo, per far vedere di essere stati più veloci. Cerchiamo alloggio dalle suore di un asilo. Cesare, il nostro capo, chiede ospitalità per un gruppetto di ragazzini in pellegrinaggio, lo ottiene e ci fa entrare. Passiamo davanti alle suorine esterrefatte, una ventina di maschi, alcuni barbuti, con gambe scoperte pelose. Entriamo in un grande salotto pieno di chincaglierie, fresco e poco illuminato, dove ci siamo sdraiati sul fresco pavimento di piastrelle. Nonostante la sorpresa le suore ci hanno fatto una pastasciutta magnifica.
Per la notte ci hanno offerto nel vicino patronato la possibilità di dormire sulle panchine a spalliera fatte a culla e su quattro giochi a “scaglie”. Si trattava di un tavolato largo 50 cm, lungo 4 metri con sponde alte 10 cm, dal fondo liscio che consente di far scivolare dei dischi di ottone anche loro lisci, il tutto spolverato di gesso. Le regole sono quelle del gioco delle bocce. Ebbene, in ognuno di questi tavolati potevamo starci in due, magari i più mingherlini. Franco non ci stava con le spalle dentro le sponde, pertanto Giorgio ha pensato bene di spingerlo incastrandolo. Le risate!
Assisi
Di Perugia mi è rimasta impressa la fontana. Proseguiamo fino a Santa Maria degli Angeli ai piedi del Colle di Assisi e arriviamo giusto in tempo per il pranzo nel maestoso refettorio del convento adiacente alla Basilica. Lungo le pareti una lunga teoria di scranni e tavoli. Attendevamo seduti a tavola con le gavette pronte. Dalle cucine un profumo delizioso. Escono due frati con due enormi terrine fumanti di penne al sugo. Non avevano ancora finito di servire l’ultimo che i primi avevano già finito di mangiare. I frati rientrarono in cucina e subito uscirono per un secondo giro. Per molti ci fu anche un terzo. A titolo di ringraziamento abbiamo cantato i nostri cori di montagna, eravamo bravini. I frati risposero con canti francescani. La visita di Assisi è stata piuttosto accurata. Tornati a Padova avremmo dovuto fare un lavoro specifico su San Francesco.
Roma
A Roma arrivammo in treno. Alloggiavamo dai Goretti, villaggio molto provvisorio per l’Anno Santo. La visita era stata indirizzata ai luoghi legati all’avvenimento: San Pietro, Santa Maria Maggiore, il Laterano, San Paolo fuori mura, la Scala Santa, le catacombe di San Callisto e ovviamente, fosse solo per vicinanza, i grandi monumenti laici. È stata la base per successive miei visite, una in particolare con Franca in agosto negli anni ‘90 per quindici giorni, con la città vuota. Una visita davvero precisa ed esaustiva.
Voglio ricordare un fatterello di quel 1950. Eravamo in una stanza nel villaggio Santa Maria Goretti, non potevamo uscire perché pioveva a dirotto. Attorno al tavolo centrale alcuni giocavano a carte, altri lungo le pareti chiacchieravano. Alzo gli occhi e vedo il soffitto, in cartongesso, piegarsi come fosse gravato da un peso in continuo aumento. Noi della periferia della stanza abbiamo intuito che si trattava di acqua piovana infiltratasi e aspettavamo che facesse crollare il soffitto sui malcapitati giocatori di carte. Momenti di tensione tra l’onesto dovere di avvertire i giocatori e il piacere perverso di vedere la cascata d’acqua cadere. Non ci fu molto tempo per pensare, uno squarcio e una massa d’acqua su tutti, anche su noi più defilati. Certo questo non impedì gli sfottò degli uni sugli altri. Del viaggio di ritorno non ricordo nulla, evidentemente abbiamo dormito tutte le otto ore di viaggio da Roma a Padova.
La descrizione diaristica fatta in questi giorni a 66 anni di distanza è davvero molto scarna e lacunosa. Sono rimaste però una infinità di lampi di memoria che non riesco a descrivere per il diario ma che sono significative per i miei ricordi. Le grandi statue al Foro italico, il camminare sulla Appia Antica per le ovvie reminiscenze, le nuvole di stornelli al tramonto che piombavano verticalmente in massa sui platani del Lungotevere e sotto i cornicioni dei palazzi seguiti, dagli strilli degli stessi per tutta la notte. Forse si davano il turno per tenere svegli i romani!
Credo di avere imparato da questo viaggio a come guardare il mondo oltre i quadretti da cartolina.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!”, Libro I, pag. 144-148