Dicembre 2012. Dario, mio nipote di vent’anni, ha partecipato con gli amici del clan ad un campo di lavoro sugli altipiani etiopi. Al suo ritorno mi ha parlato di questa sua esperienza, suscitando la curiosità che già da tempo coltivavo per quella zona del mondo. A dicembre del 2012 ho realizzato il viaggio. I miei appunti sottolineano impressioni, sensazioni, stati d’animo di quanto visto e vissuto, accennando appena ai luoghi di interesse storico e paesaggistico che possono essere meglio approfonditi leggendo le guide.
Non c’è dubbio che se avessi potuto leggere questi appunti e relative guide prima di intraprendere il viaggio avrei riportato a casa un bagaglio di conoscenze ben più vasto. Con questo mi permetto di suggerire, a chi viaggia, l’importanza della “preparazione al viaggio” per comprendere, imparare e gustare il mondo.
Odori e colori
Siamo in volo da due ore, gli spazi sono stretti. Portano il pranzo. Già da appena imbarcati si è diffuso uno strano odore, ritenevo fosse di cibo esotico, era solo odore di umanità, forse poco lavata, o semplicemente il suo proprio odore. All’odore di fondo si sovrappongono una miriade di odori che si moltiplicano a mano a mano che i commensali aprono i contenitori delle varie pietanze. È un mescolarsi di effluvi sconosciuti che non so se definire tipici dei voli o inconsueti. Penso che per i prossimi dieci giorni dovrò conviverci, non solo, ma forse apprezzarli e gustarli. Sono curioso di sapere come finirà.
Vedere le persone che gustavano il cibo mi faceva presumere che non fosse male. Mi lasciava perplesso il mio vicino di posto, italiano, che spazzolava con cura il variopinto portavivande: un couscous bordeaux, una verdura tritata, una ciotola di pezzetti di carne, forse montone, immersa in un intingolo color cannella, delle piadine intinte in un sugo scuro, un frutto che non conosco, un bicchiere di vino rosso. Alla fine del pranzo sul portavivande c’era un accumulo di rifiuti almeno doppio di quanto ricevuto. Ho preferito non mangiare niente, rinviando l’esperienza ai giorni successivi.
Continuavo a guardare fuori dal finestrino senza intravedere nulla fino alle tre. Finalmente dal buio emergono le luci di una città o di un’oasi. L’illuminazione è spettrale, freddo. Gli edifici sembrano illuminati dalla luna. Qua e là alcune zone con luce a punti, piccoli quartieri. Ore 4:00 filo rosso all’orizzonte, il rosso dell’alba. Ore 4:15 spunta il sole su un mare di nubi bianche. Ore 4:45 atterraggio ad Addis Abeba e incontro con Izac, la nostra guida etiope parlante italiano. Si entra in città con pulmino, completata la comitiva di otto anziani e due adulti, tutti italiani. Ci fermiamo per un caffè.
Addis Abeba, la culla dell’uomo
Si visita il mercato a bordo del pullman. Trattasi di una vasta area della città che coinvolge interi quartieri. Infatti ogni genere di merce è commercializzato in zone specifiche, frutta e verdura, auto e derivati, abbigliamento, edilizia, derrate alimentari. Pensavo al tradizionale mercato dei paesi del nordafrica o del sudest asiatico da visitare con cautela a piedi. Questo è di una dimensione tale che il modo più opportuno è l’auto. Ferma restando la presenza di una folla di piccoli venditori e acquirenti che trattano qualche cipolla o peperoncini, un tegame o una lampadina. A ridosso dei fabbricati in laterizio si è creata una baraccopoli all’indiana. Gran parte della merce è sul marciapiede e sulla strada, costringendo il traffico a continue gincane. Inoltre è consolidato il pericolo di furti.
Addis Abeba è una città caotica, cresciuta fino a 7 milioni di abitanti senza un piano coordinato di infrastrutture, persino i nomi delle strade hanno indicazioni ortograficamente sbagliate, questo per dare la misura del caos.
Albergo Jurter, ritrovo per il pranzo presso un ristorante italiano, da Don Vito, buon cibo locale addomesticato ai nostri gusti, in ogni caso in un contesto edilizio un tantino raffazzonato: nelle strade i collegamenti elettrici con i pali sghembi e i cavi penzoloni, marciapiedi e piano stradale sconnesso. La cena in albergo è buona ma il vino è pessimo, non c’è cultura vinicola. Presente orchestra di musica folk nazionale con rumore infernale.
Visita al Museo Nazionale, importante a livello mondiale per la presenza di “Lucy”, scheletro di femmina ominide deambulante in posizione eretta di 3.2 milioni di anni, ritenuto per lungo tempo il punto di congiunzione, l’anello mancante, tra la scimmia e l’uomo. È stato trovato sul fianco della frattura della crosta terrestre che sarà la causa del distacco della costa sudoccidentale africana dal resto dell’Africa: il Rif. Nello stesso ambiente sono stati trovati successivamente altri resti ancora più remoti, di 4.8 milioni di anni. Questo a dimostrare l’origine dell’umanità in questi luoghi. Tanta importanza meriterebbe una attenzione più rilevante, da parte mondo tutto, alla custodia di questi reperti. Il popolo etiope non può sobbarcarsi tali costi considerata la sua povertà. Nelle stesse condizioni è il Museo Etnografico ubicato all’interno dell’Università e la davvero notevole biblioteca. Una singolarità: all’uscita dal Museo è piovuto un forte acquazzone non previsto.
Lalibela
Partenza per l’aeroporto con un volo interno. Controllo di sicurezza molto accurato. Molto movimento di locali e turisti. Destinazione Lalibela, importantissimo sito di chiese rupestri.
Si attraversa una zona rurale molto tormentata, massi e sassi ovunque, piena di dislivelli e rughe del terreno che lo rendono difficilmente lavorabile con attrezzi primordiali: forche e pali di legno, aratro costituito da un palo con al piede un puntale di ferro trainato da piccoli asinelli che procede con difficoltà dovendo scansare continuamente i sassi affioranti, semina manuale a spaglio. Pastorizia: zebù, capre, asinelli, pecore su un territorio arido, povero di verde. Casette dal tetto di lamiera e pareti di pali e frasche riempite di fango, paglia e sterco di animali. Preponderanti i tucul, le cui pareti sono come quelle delle casette con il tetto di lamiera.
La costituzione del suolo costringe a una sequenza di terrazzamenti di forma e dimensione le più diverse. Certo questa situazione non aiuta facilitare il lavoro del coltivatore. Credo siano proprio queste le condizioni che costringono l’agricoltura di questi luoghi ad essere ferma all’Iliade. In tutto il territorio agricolo, considerando che il 95% della popolazione si dedica all’agricoltura, ci sono piccole zone adibite alla battitura dei cereali, frumento, miglio, sorgo, panico, injeria, spazi circolari di una decina di metri delimitati da pietre.
I cerchi di mietitura
Per capire quanto siano primordiali i metodi di coltivazione utilizzati trascrivo un capitoletto tratto dal canto XX dell’Iliade di Omero, vissuto intorno all’ottavo VII secolo prima di Cristo: “Come quando, per trebbiare il candido orzo sull’aia bellissima, si aggiogano i buoi dall’ampia fronte e sotto le zampe dei buoi dall’alto muggito rapidamente le spighe si sgranano, così, spinti dall’intrepido Achille, i cavalli dai solidi zoccoli calpestavano insieme scudi e cadaveri”.
In altro capitolo, sempre dell’Iliade, il canto XI, viene descritta la mietitura: “E come i mietitori, nel campo d’un uomo opulento, gli uni di fronte agli altri dispongono in fila i covoni d’orzo e di grano; e a terra giú cadono fitti i mannelli: cosí Troiani e Achivi, lanciandosi gli uni sugli altri, strage facevano; e niuno pensava alla fuga funesta. La raccolta delle spighe viene ancora fatta prendendo una ‘manna’, un fastello di spighe, con una mano mentre con l’altra armata di un falcetto lo si taglia alla base. I mannelli così ottenuti vengono uniti in covoni per formare poi i pagliai dove il cereale viene messo ad asciugare definitivamente per essere infine trebbiato.
Fa impressione vedere una estesa zona coltivata a cereali pronta alla mietitura invasa da una moltitudine di contadini, uomini, donne, bambini, anziani accucciati, affiancati fra loro in un unico fronte che avanza mietendo. Sembravano il bimbo di Sant’Agostino che svuotava il mare con un cucchiaio.
Altra funzione dei covoni è quella di portare a maturazione i semi in quanto la pianta viene raccolta con un certo anticipo per evitare che i semi, se troppo maturi, cadano durante la fase di raccolta con la falce a mano. La battitura è l’operazione atta a realizzare il distacco del seme dalla paglia e dalla pula. Il distacco avviene con il pestaggio di un gruppo di zebù, di solito sei, più un asinello, che girano in cerchio con andamento tale che tutti gli animali percorrono distanze analoghe.
Nelle vicinanze della circonferenza del sito vengono disposti i covoni del cereale da battere, la cui forma può essere a pagliaio oppure a sfera, affinché il piede appoggi meno possibile sul terreno, fermo restando che sotto ogni cumulo vengono poste delle frasche per evitare la risalita di eventuale umidità del suolo. Credo che la forma dei cumuli sia in funzione del tipo di cereale.
Sorvolando la zona con i voli interni, quindi con aerei più piccoli, ad altitudini più basse, ogni dettaglio del terreno è più chiaro, si vedono questi cerchi nello scacchiere degli appezzamenti di terreno lavorati. È evidentemente un’economia agricola molto povera e legata totalmente alle condizioni meteorologiche, non c’è nessuna possibilità di irrigazione. Non so come si faccia per l’approvvigionamento dell’acqua per uso domestico.
Un’agricoltura primordiale
Siamo saliti moltissimo per scavalcare una amba, tipica montagna abissina, la cui cima è piatta. Superando il passo scendiamo per giungere a Lalibela. Il fianco della montagna è coperto dalle onnipresenti acacie con la loro chioma ad ombrello. Spesso questi alberi sono utilizzati come piano d’appoggio per fiocine, per fascine di cereali ad asciugare, o meglio a seccare, fuori dalla portata degli animali al pascolo, capre e zebù. Qua e là si vedono piccoli terrazzamenti coltivati e quindi i relativi tucul dei contadini.
Sottolineo lo stato di povertà della popolazione che attribuisco essenzialmente ad un’agricoltura primordiale dovuta alla situazione climatica e meteorologica arida per lunghi mesi, per cui la vegetazione è rigogliosa solo nei periodi delle piogge, uno detto delle “grandi piogge” durante il quale si realizza il raccolto principale e un secondo delle “piccole piogge”. Tra i due periodi i lavori agricoli si svolgono in ambiente di calura perciò con fatica. La sopravvivenza è legata al raccolto anno per anno. Purtroppo ciclicamente avvengono periodi di siccità che compromettono i raccolti per uno o più anni. Il sistema delle scorte alimentari è scarsamente realizzato. E solo di qualche anno fa è la carestia che provocò milioni di morti.
Questo ambiente arido e inospitale percorso da piccoli greggi di capre, pecore, zebù, asinelli custoditi da bambini, donne e vecchi vestiti di stracci sopra i quali gli uomini portano una particolare coperta detta ‘barro’ per proteggersi dal freddo notturno e dalla calura diurna. I pastori portano un bastone inseparabile con molteplici funzioni: pastorizia, d’appoggio quando sono fermi, da supporto quando camminano, da punto di equilibrio nel trasporto sulla testa e sulle spalle di qualsiasi carico, fascine, sacchi di cereali, legna, bidoni d’acqua, secchi di sterco essiccato, covoni di cereali e di paglia. Interessante osservare l’andatura degli uomini durante il trasporto, trattasi di un piccolo trotto a passi corti che consente di ridurre al minimo l’andamento altalenante del carico che si crea facendo passi lunghi e ridurre così l’inerzia del passo sulla testa o spalle. L’andatura ricorda lo spostamento delle ballerine russe dei balli folcloristici. È sorprendente osservare la quantità di carico che portano in questo modo.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!”, Libro I, pag. 170-175