La costruzione del tucul
Come al solito la salita è faticosa per la calura e il terreno sconnesso. Siamo ben oltre 2.000 m di altitudine. In lontananza si sente un vociare di uomini. Ancora pochi metri sulla sinistra, oltre una cortina di arbusti, si intravedeva già impostata la struttura di contorno di un tucul che cercherò di descrivere. A delimitare il perimetro della costruzione erano stati piantati, in due file parallele, distanti tra loro una decina di cm, dei pali ben scorticati di eucalipto del diametro di 8 cm circa. I pali distavano tra loro una ventina di centimetri. Successivamente tra le due file di pali sarebbero state poste delle frasche legate ai pali con legacci vegetali. Quelle frasche che a fascine vengono portate al mercato, a spalla o sulla testa, da ragazze e ragazzi proprio per questo uso. Questa intricata intelaiatura di frasche e pali ha lo scopo di supportare l’impasto di fango, paglia e sterco di mucca che serve da coibente per le pareti del tucul. La fase costruttiva del tetto l’avevo intravista precedentemente in altra occasione.
Quello che voglio sottolineare è l’aspetto sociale del fenomeno. All’interno del recinto, di circa 25 mq, delimitato dai pali, c’erano almeno una ventina di uomini al lavoro. Alcuni a piantare pali, altri a legarli fra loro, altri ancora a legare frasche, alcuni arrampicati in alto. E tutti vociavano creando una confusione incredibile.
Il rito del caffè
Sempre all’interno del recinto, in uno spazio di una nostra stanza di 5 mq, si svolgeva una scena eclatante: il rito del caffè. Lo svolgersi del fatto segue un rituale che è comune ovunque, al bar, all’aeroporto, al ristorante, in casa ed è costituito dalla persona, dall’attrezzatura, dal cerimoniale. La persona è una donna dal vestito vistoso, l’attrezzatura un tavolino alto 50 cm con sopra una moltitudine di piccole tazzine senza manico e un piccolo braciere per tostare i grani di caffè posti su un tegame bucherellato, un ventaglio per attizzare il carbone, un mestolo di ferro per smuovere i chicchi durante l’abbrustolatura, un pestello per macinare i grani tostati, una cuccuma da porre sul braciere per bollire l’acqua e il caffè, il porta zucchero.
Il cerimoniale consiste nella bollitura del caffè che si esegue più fasi. Dopo una prima bollitura il liquido è versato, parzialmente, in un piccolo recipiente e da questo riversato nella cuccuma. L’operazione si ripete più volte finché, secondo un criterio che non ho capito, la donna ritiene l’infuso idoneo a essere bevuto. Riposa qualche minuto e quindi viene servito nelle tazzine con l’aggiunta di uno zucchero grossolano e scuro.
Gli uomini tutti insieme lasciano il lavoro e, continuando a vociare, si avvicinano al banchetto in una ressa di spinte e gomitate dato il poco spazio disponibile. Viene messa in dubbio la teoria dell’impenetrabilità dei corpi. Mi sono chiesto perché non mettere il banchetto all’esterno del recinto? La risposta può essere perché inconsciamente vogliono sentirsi vicini?
Due sono i fatti salienti che emergono da quanto scritto. Da una parte il contrasto tra il gran numero di lavoranti e l’economico realizzarsi del risultato, dall’altra il rito del caffè all’interno della stanza che aveva ancora le pareti aperte. Entrambi non hanno senso razionale, come spiegare la cosa?
Così come detto nel diario di viaggio per i funerali, matrimoni o comunque per avvenimenti straordinari, la società del villaggio è organizzata in forme di mutuo soccorso, così anche nella costruzione della casa, elemento essenziale di base per la convivenza, la comunità si prodiga a garantire a tutti con il contributo operativo di tutti per la sua realizzazione.
La guida etiope ci disse che anche in altri ambiti si realizza questa solidarietà in funzione di un interesse collettivo. Chi è meno bisognoso si sente in dovere di dare, per gratitudine a Dio, che di più lo ha beneficiato. Questo è un pensiero, non so se chiamarlo filosofico, che noi abbiamo rimosso sostituendolo con la convinzione che “Quello che ho è mio, se sono generoso posso anche donarlo” che è molto diverso da quello espresso da questa comunità: “La condivisione crea il bene della comunità e questo garantisce anche il mio bene personale”.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!”, Libro I, pag. 186-187