Mek’ele-Axun
Pochi chilometri e vicino alla strada visitiamo la chiesa Wukro Chirkos, in parte scavata nella roccia. Riprendiamo la strada asfaltata, quella non percorsa il giorno precedente e subito dopo, in uno slargo, quasi un piazzale di sosta, una sorpresa. Approfittando della piazzola asfaltata un gruppo di contadini aveva piazzato l’attività di trebbiatura e posizionato i covoni dei cereali da battere tutto intorno e all’interno la zona di pestaggio: il gruppo di animali opportunamente impastoiati e seguiti dal contadino con l’immancabile bastone giravano e giravano per far staccare i semi dalla paglia. Di lato c’era un “tiro” di animali di ricambio in modo che l’attività non fosse mai interrotta.
I covoni erano di cereali diversi: grano di vari tipi, orzo di vari colori, sorgo, panico e molta injera, una erbacea dai semi piccolissimi utilizzata per una specie di piadina che è il pane nazionale. Dopo il pestaggio il cereale è staccato dalla paglia e dalla pula ma è ancora mescolato: allora comincia il lavoro dell’uomo che con la forca allontana la paglia e successivamente, con una tecnica vecchia di millenni, separa il seme dalla pula. Il lavoro consiste nel lanciare in aria con una pala di legno il miscuglio di seme e pula. Nella ricaduta il cereale, più pesante, cade verticalmente mentre la pula più leggera viene spostata dal vento, cadendo così più lontano. Sotto il sole è un lavoro duro.
La tappa successiva è la chiesa Abraha Atsbeha. Passata Adigrat si arriva a Yeha, con resti di un millennio prima di Cristo in una zona ritenuta la culla della civiltà etiope. Fu la prima capitale conosciuta dell’Etiopia. Dopo Adua, importante per la storia d’Italia, arriviamo ad Axun. Le montagne, in particolare nei dintorni di Adua sono imponenti, enormi denti che escono dalle foreste creando un paesaggio bellissimo. La presenza umana è una costante invasiva con preponderanza di bimbi e ragazzi.
Axum
La visita inizia al Parco delle Stele, imponenti monumenti funebri. Tra la chiesa di Santa Maria di Sion nuova e quella vecchia, solo per uomini, si trova una piccola cappella che costudisce l’arca dell’alleanza con le tavole dei Dieci Comandamenti. È un luogo suggestivo. È stata trovata una galleria parzialmente esplorata che, si dice, arrivi ad un palazzo lontano alcuni chilometri. Leggende locali evocano l’esistenza di una galleria che arriva in Yemen, paese dai molti legami con Axum. Lungo la strada c’è una capanna che custodisce una stele alta 2 m del re Ezana che porta uno scritto in tre lingue, greco antico, sabeo, lingua del popolo Saba, e Ge’ez l’aramaico parlato ancora oggi dai preti ortodossi etiopi.
Del palazzo Dungur, della regina di Saba, rimangono poche rovine del nucleo centrale sufficienti a dimostrare una ampiezza di almeno dieci volte. Adiacente c’è lo spiazzo delle stele di Gudit, la regina ebrea che distrusse Axum. La leggenda vuole che Memelik I, figlio di Saba, al ritorno in Axum dall’esilio alla corte del re Salomone portasse con sé 11.000 primogeniti di famiglie ebree, da cui la comunità ebraica in Etiopia.
Una carovana di dromedari
Una sorpresa: stavamo uscendo dal palazzo della regina di Saba e stavamo commentando la stele del parco Gudit quando dal fondo della strada, leggermente in curva, apparvero un paio di dromedari, a mano a mano che avanzavano se ne aggiungevano altri, ne ho contati circa 130. Procedevano in fila indiana legati l’un l’altro con un cordino tra la coda del precedente e la cavezza del seguente, camminavano lentamente con andamento dondolante continuando a ruminare, forse avevano mangiato da poco. Il loro passo era felpato, silenzioso. Con la fantasia diventava facile credere fossero fantasmi o si trattasse di miraggio. Ci dissero che il loro viaggio dura un paio di mesi da Gondar all’Afar in Dancalia e viceversa per il trasporto del sale.
Rientriamo in città a piedi per visitare i negozietti pieni all’inverosimile di cianfrusaglie e forse anche interessanti antichità quali libri liturgici in pergamena, dipinti, croci di legno o metallo di diversi tipi, cesti di rafia, statuette, coltelleria ecc.
Gondar
La cittadella medievale cinta di mura estese per 70.000 m comprende una sequenza di palazzi di stili diversi o misti portoghesi, indiani, etiopi. L’imperatore Fasiladas, capostipite, ne è il fondatore. I suoi successori completarono le costruzioni fino al secolo scorso. Si può immaginare la vita di corte, i pranzi, le feste, i ricevimenti per altri capi di Stato e gli ambasciatori. Le cerimonie religiose dell’imperatore prete, gli intrighi di corte. All’interno di un palazzo le gabbie dei leoni etiopi allevati dal negus.
Legato alla dinastia il complesso Kushan e l’adiacente piccolo museo con libri antichi e gli scheletri della regina e del figlio. Il complesso della chiesa Debre Berhan Selassiè è il monumento più significativo, in particolare l’interno e il soffitto con una miriade di volti di angeli dipinti. A ridosso del Kushan, oltre il recinto, abbarbicati sul ripido pendio, un villaggio di piccoli tucul adibiti ad abitazione per i giovani aspiranti monaci.
L’Albergo Goha che ci ospita è una costruzione realizzata durante la dittatura del colonnello Menghistu. L’architettura doveva riflettere i dettami politici che si ispiravano al regime comunista sovietico, allora protettore del governo etiope: linee essenziali, poco appariscenti e comunque povere. Scale in cemento scoperto, mobili in legno grezzo in certi casi di scorza d’albero. Ora è passato ai privati che lo stanno rendendo più accogliente, uno dei soci ha studiato alla Bocconi di Milano.
Proprio una panca, il cui sedile era una grossa tavola ricavata dal bordo di un tronco, in un punto terminava a spigolo contro il quale ho sbattuto uno stinco ferendomi. Sopra la panca c’erano quattro attaccapanni in profilato di ferro quadro, piegato e saldato, poco più grandi di due pugni affiancati. Sopra e lateralmente a questi due lampade dalla luce fioca.
Miraggio
Entrato nel pomeriggio nella stanza, come al solito ispeziono il letto, il lenzuolo, il bagno per ragioni igieniche, e dò uno sguardo all’arredamento, tende, finestre sporche e tutto il resto dimesso. Nulla d’insolito. Rientrato in albergo che era già buio, qui la notte scende in una quindicina di minuti vista la vicinanza all’equatore, salgo in camera, mi preparo per la cena, guardo fuori dalla finestra giù nella valle le luci della città immersa nel bosco di eucalipti.
Faccio per uscire e scopro disegnati sul muro, un po’ sotto gli attaccapanni, una sequenza di numeri nitidi perfetti, senza sbavature, una serie di 5 ben distanziati. Sorpreso accendo la lampadina che penzola dal soffitto, le sagome spariscono. Spengo la luce, riappaiono. Incredulo per non averli visti nel pomeriggio e per non capire il senso della loro presenza, ci ho anche passato un dito sopra. Riaccendo la luce e cerco spiegazione. Vedo un attaccapanni con dei ganci che non hanno forma di 5 ma una forma che, a fronte dell’inclinazione rispetto alla parete e della fonte di luce, la luna, formano un 5 molto nitido. Non avevo capito che si trattava di un gioco d’ombre. Non sono sicuro del numero di attaccapanni.
Il lago Tana
A due chilometri da Gondar visitiamo i bagni di Fasiladas, sede di una importante festa religiosa. Scendendo verso il lago Tana il panorama si mostra meno arido, le coltivazioni sono più estese e più rigogliose, si incontrano le risaie, si vedono uccelli acquatici. Lungo la strada ora ben asfaltata ci siamo fermati per un fatto insolito. La carreggiata era per metà invasa da uno stormo di avvoltoi, forse un centinaio, che banchettavano sulla carcassa di uno zebù vittima di un incidente stradale. I volatili si accalcavano gli uni sugli altri a formare un cumulo in movimento nel tentativo di arrivare alla carne da parte di quelli più esterni. Solo all’arrivo delle nostre auto alcuni si sono allontanati. Ho chiesto alla guida perché l’animale non sia stato recuperato all’alimentazione umana. Mi ha risposto che il tipo di morte aveva reso l’animale impuro, in quanto non era stato dissanguato come prescritto dalle norme religiose.
Bahar Dar
Bahar Dar è una città sulla sponda meridionale del Lago Tana, importante bacino lacustre per la sua estensione e per essere la sorgente del Nilo Azzurro, che porta le sue acque fino al Mediterraneo e, con queste, la storia dell’uomo dal suo apparire ai giorni nostri. Attraverso questi luoghi scorre la leggenda della Regina di Saba e del re d’Israele Salomone.
Il filo conduttore del nostro viaggio in Etiopia sono le chiese rupestri cristiano ortodosse dell’altipiano dell’Amara e del Tigrai. Proprio sulle sponde e le isole del lago, in particolare sulla penisola di Zege, ci sono chiese tra le più significative. La chiesa di Ura Kidane Mirhet tra queste. Per raggiungerla si fanno 50 minuti di barca a motore che ci porta ad un minuscolo porticciolo di pochi metri dal quale inizia un sentiero sconnesso con grossi massi da scavalcare, immerso in una foresta ad alto fusto e un sottobosco intricato con, qua e là, piante di caffè. Uccelli i più diversi, anche una specie di tucano. Come al solito la nostra presenza attira una moltitudine di bambini e adulti che spuntano da una miriade di stretti sentieri che si perdono tortuosi tra il verde del sottobosco. Cercano di venderci oggetti ricordo di fattura artigianale, piccole imbarcazioni di papiro, ancora oggi in uso come 3000 anni fa per la pesca sul lago. Testimonianze di queste imbarcazioni ci sono, dipinte, sui monumenti egizi del tempo dei faraoni, la cui influenza arrivava fino a queste contrade. Inoltre libri antichi di pergamena dipinti su pelle di capra, croci in legno o metallo tipiche dei vari luoghi di culto.
Ancora 20 minuti di barca per visitare il monastero Azwa Mariam, molto simile al precedente. È in costruzione un museo per raccogliere in un posto adeguato gli enormi tesori di dipinti, sculture, paramenti sacri, ora sparsi nelle molte chiese della zona.
Addis Abeba
Nel viaggio di ritorno, lungo 560 km, molti tratti sconnessi per frana, altri con grandi lavori stradali, vedo mezzi meccanici cinesi e giapponesi e contemporanea presenza di manodopera locale impegnata in lavori artigianali, come gli spaccapietre descritti precedentemente. Il tracciato è tortuoso in un continuo saliscendi. Traffico limitato ai mezzi molto pesanti adibiti al trasporto di pietrame.
Dall’altopiano, 2000 m, si scende a 1000 m per superare in un maestoso canyon il Nilo Azzurro. Qui c’è il ponte italiano del 1935-38, affiancato recentemente da uno giapponese ben più ampio. Risaliamo verso l’altipiano per vedere il ponte portoghese utilizzato dal 1700 dalle carovane che risalivano il continente verso il nord per il commercio di merci e schiavi originato ai tempi della regina di Saba e prima ancora.
Arrivati ad Addis Abeba ci ospita l’albergo del nostro primo giorno in Etiopia per riposare e prepararci al ritorno in Italia. Ceniamo in un locale tipico un tantino pacchiano, ormai è notte fonda e immersi in un traffico caotico raggiungiamo l’aeroporto. Faticoso il disbrigo delle formalità portuali. Volo normale, tutto sopra un mare di nuvole.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!”, Libro I, pag. 181-185