Il mercato del sabato
Le persone, animali e cose incrociate e descritti sulla strada percorsa il mattino erano qui seduti per terra con la loro mercanzia sotto un ombrello, o un telo sostenuto da qualche palo o semplicemente sotto il sole implacabile dei 2.600 m di altitudine e così vicini all’equatore. Chi vendeva il sale arrivato dalla Dancalia con le carovane di cammelli in pani o sgretolato, mucchietti di cereali e orzo di più tipi, sorgo di vari colori, grano, miglio, caffè e tantissimi altri semi sconosciuti. Stoffe lavorate su telai di una primordialità da museo, scarpe, pali, frasche, paglia, sterco per i tucul. Contenitori di plastica di recupero di tutte le forme e dimensioni, attrezzi contadini, e mille altre cose essenziali in una economia primordiale.
Osservando questo conglomerato di varia umanità e cose ripercorrevo le letture degli scritti dei viaggiatori dei secoli scorsi, a dimostrazione che poco è cambiato da allora. Credo che le uniche cose diverse fossimo noi con le auto, la plastica sotto forma di sacchi per le granaglie, i barattoli e le bottiglie e lo sfarfallio dei pezzi di sacchetti di plastica sparsi dal vento in tutti gli angoli.
Riprendiamo la strada per visitare Bet Na‘Akuto La‘Ab, ancora una chiesa costruita all’interno di una grotta. Tornando a Lalibela troviamo un pittore e acquisto tre disegni: il caffè, il pastore, la donna carica e piccoli ricordi. Cena buona, così l’albergo.
Mek’ele
Si decide di percorrere la strada sterrata Lalibela-Sachota-Mek’ele anziché l’asfaltata che corre a est della catena dei monti Lasta passando vicino al lago Ashang e ad Amba Alagi, nelle vicinanze quindi del bordo dell’altipiano che precipita sulla valle della Dancalia, sede del deserto di sale da cui partono dalla notte dei tempi le carovane che portano il prezioso minerale ai mercati dell’ovest.
Il percorso sterrato è quello storico delle comunicazioni da sud a nord dell’Etiopia. I primi 200 km sono in territorio Amara, il resto in quello del Tigrai. Rileveremo le differenze. I primi 50 km mostrano un paesaggio simile a quello dei giorni precedenti, i successivi evidenziano un’agricoltura un po’ più ricca per gli spazi più aperti, sempre comunque primordiale e stenta. I trasporti sono fatti esclusivamente dall’uomo sulla testa, sulle spalle, a braccia o sulla soma dei piccoli asinelli senza l’ausilio della ruota. Oltre agli uomini sono presenti in uguale intensità donne, bambini, anziani. La mietitura a mano, la trebbiatura a pestaggio animale, la divisione della paglia dal seme a scuotimento con la forca, la separazione della pula dai semi con l’aiuto del vento. Sculture egizie e mesopotamiche mostrano questi procedimenti già dagli albori dell’agricoltura.
Una mietitrebbia a moduli smontabili
La mia fantasia, durante il viaggio, mi ha fatto ideare una mietitrebbia a moduli smontabili, trasportabile singolarmente da un uomo sui pendii delle montagne per poter spostare le lancette del tempo, ferme da almeno 3000 anni, un po’ più avanti. Fantasia. I soliti tucul abbarbicati su terrazzamenti che sono semplici cenge larghe pochi metri. Sui terreni e sui pendii terrazzati si intravedono piccole mandrie e greggi al pascolo accudite da numerose persone e bambini.
Si dice che ogni famiglia abbia una media di sei figli. Quando la nostra comitiva, tre fuoristrada, si ferma, in pochi minuti si è circondati da bambini e adulti che compaiono come per incanto tra gli alberi. Non chiedono nulla, ci guardano, facciamo qualche foto. Saliamo fino a 3.000 m, il sole brucia, l’aria è arida. Comunque anche sulle ultime propaggini sotto le cime e sulle cime stesse si terrazza e si coltiva.
La valle dei baobab
Cominciamo a scendere nella valle dei baobab. Alcuni sono enormi e hanno sembianze di corpi nudi con molte braccia e dita adunche, senza foglie, che evidenziano il loro aspetto scheletrico. A completare l’atmosfera il territorio circostante è arido, rinsecchito, coperto da vegetazione bruciata. Qualche acacia interrompe il colore ocra. Sembra il preludio dell’inferno. Non è certo colpa dei baobab, che anzi rappresentano la vita protesa all’eterno, sono alberi millenari.
Sugli alberelli nudi e spinosi si vedono nidi penduli. La loro tessitura è artistica. Qua e là cumuli rossi alti qualche metro dei termitai. Ancora qualche chilometro e la valle si allarga e con essa gli appezzamenti di terreno coltivato. Sugli spazi aperti si vedono ancor più il brulicare di uomini e animali. Siamo così entrati nel Tigrai e sono apparse le costruzioni tipiche del territorio tigrino, in pietra rossa ben squadrata. Tale pietra è disponibile ovunque. Rimangono però le stesse condizioni di promiscuità di uomini e animali nei locali adibiti ad abitazione.
Un’abitazione tipica
Abbiamo visitato l’abitazione di una famiglia costituita dai genitori con quattro figli. Dal lato strada si presenta un muro di cinta in pietra alto un paio di metri nel quale c’è un’apertura di circa 1 m senza architrave che può essere chiusa con un’asse di legno. Entriamo e subito sulla destra uno spazio quadrato di circa 15 m coperto con pali e frasche, adibito a stalla per il bestiame adulto. Sulla sinistra dell’entrata una costruzione sempre in pietra con il tetto a tucul per ospitare gli animali giovani che nelle notti più fredde dormono con la famiglia per riscaldare l’ambiente. A lato di questo locale c’è un’altra stanza magazzino chiusa. Staccato di qualche metro sorge il locale di abitazione che serve da cucina, soggiorno, notte a forma circolare con un diametro di circa 5 m. Sul fondo di fronte alla porta il forno per cucinare l’injera, il loro pane, specie di piadina rotonda. Lateralmente una sopraelevazione 50 cm in terra battuta fungono da sedile di giorno e da letto di notte, ricoperte con pelli di animale. Sul tetto al centro della stanza un foro, tipico dei tucul, per la fuoriuscita del fumo.
A ridosso di questa costruzione un’altra simile adibita a deposito derrate e attrezzi e ricovero pollame. Nel caso la famiglia aumenti numericamente si apre un varco nel muro di cinta e si costruisce un nuovo locale. La costruzione delle abitazioni è opera del capofamiglia con l’aiuto della comunità che sarà ripagata dalla collaborazione della famiglia ai bisogni degli altri. È evidente che le modalità costruttive di queste abitazioni sono un patrimonio direi quasi “genetico” di tutti. Anche le costruzioni comunitarie sono uguali, al di là delle dimensioni.
Lungo la strada ci siamo fermati in un paesetto in un locale bar per consumare il pranzo al sacco. Il luogo era molto spartano e disadorno. Finché noi mangiavamo una ragazza ha preparato il caffè secondo una procedura che si attua ovunque in albergo, all’aeroporto, nei locali pubblici anche in Addis Abeba, nelle abitazioni, al museo, è un rito.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!”, Libro I, pag. 178-181