Un funerale
Gli asinelli, la cui statura è poco più di quella di una capra, vengono caricati tanto che l’uomo in salita li spinge da dietro per farli avanzare. Al nostro passaggio con il fuoristrada ci guardano come fossimo alieni, forse stremati dal sole, dalla solitudine, dagli stenti. Quando entriamo in Lalibela troviamo la strada invasa da una moltitudine di uomini, solo uomini, vestiti poveramente con sopra la solita coperta e l’inseparabile bastone appoggiato trasversalmente sul collo con le braccia ad esso attorcigliate. Cantavano inni liturgici ed erano guidati da un prete che si distingueva solo per il copricapo, per il resto era uguale agli altri, sporco e impolverato: le condizioni economiche dei sacerdoti con le loro famiglie non sono migliori di quelle dei comuni contadini. Va sottolineato che il prete per essere tale deve essere sposato. Solo i monaci possono essere celibi.
La processione salmodiando andava verso il centro del paese. Molto lentamente li abbiamo superati dovendoci fermare quasi subito perché una folla ora formata anche da donne e giovani aveva riempito il piazzale antistante la chiesa. Gruppi di uomini seduti discutevano, gruppi di donne in piedi cantavano, altre salmodiavano, altre ballavano le loro tipiche danze, i bambini giocavano, il tutto immerso in una nuvola di polvere che veniva sollevata dalla gente.
Il tutto si presentava sotto forma di caos, avevo la sensazione che non ci fosse nessuna regola né di come o quando ci sarebbe stato dell’altro.
La guida ci disse di non fotografare perché si trattava di un funerale e approfittò per informarci dello svolgersi dell’avvenimento. Il defunto era un contadino, ciò non impediva che la comunità lo onorasse con la presenza di tutti. Dopo la sepoltura, alla quale tutta la comunità partecipa, iniziano tre giorni di festeggiamenti in casa del defunto a cui partecipano parenti e amici, con pranzi, musica e balli. I costi, piuttosto consistenti, vengono sostenuti da una organizzazione tipo “cassa peota” che esiste in seno al villaggio proprio per sostenere funerali, matrimoni o avvenimenti straordinari dei soci, che altrimenti non potrebbero sostenerli data la loro povertà.
Non vedo in che modo in un territorio così tormentato e gramo si possa cambiare la situazione. Non è un problema di piccola proprietà, bensì di estensioni di territorio lavorabili con mezzi meccanici, idonei. Ciò non è possibile per l’orografia del terreno, ovunque emergono spuntoni di roccia, lo stato di humus è inconsistente, anche se ricco perché vulcanico. Per inconsistenza idrica e, prima ancora, per la mancata acculturazione della popolazione ad “inventare” modi diversi per uscire da uno stato primordiale.
Le chiese rupestri
Facciamo visita al primo gruppo di chiese rupestri ricavato nella roccia sotto il piano campagna. Si dice che queste costruzioni abbiano avuto lo scopo di non apparire alla vista di eventuali invasori. La prima è stata Ben Medhame Alem, purtroppo mortificata da una invadente struttura in acciaio realizzata dall’Unesco a scopo protettivo, così come su molte altre. Bet Maryam, Bet Meskel, Bet Denaghel formano il gruppo. Le chiese del secondo gruppo, Bet Gabriel-Rafael sono state scavate nella roccia, creando contemporaneamente canali di scarico delle acque profondi fino a 30 metri. Da qui si dipartono dei corridoi/tunnel che portano alla Bet Merkorios, a Bet Abba Libanos e alla piccola Bet Leven. Trattasi di un imponente sistema di gallerie che garantiva una ottima difesa perché qui era ospitato anche l’imperatore. Separata e solitaria è scavata Bet Giorgis, la più caratteristica, scavata a filo campagna per una profondità di 15 metri, che si raggiunge solo via caverna. Gli scavi non hanno protezioni, per cui si presenta così come è sempre stata da secoli, coperta da una patina di licheni dai colori mutanti dal verde pastello al rosso acero. A completare l’atmosfera piccole grotte scavate sulle pareti laterali contenenti scheletri di pellegrini e monaci.
Nota di colore: un gruppo di uomini e donne, forse le famiglie dei sacerdoti, erano intenti a fare il bucato a paramenti sacri, piviali, stole, tovaglie riccamente lavorate e colorate, poi distese ad asciugare sopra arbusti e steccati. Di fronte ad un tucul un uomo tesseva su un telaio stoffe variopinte. Siamo alla fine della giornata e rientriamo in albergo, il Mountview Hotel. Buono, panorama su una ampia valle circondata da cime a forma di amba.
La notte etiope
La notte è stata una scoperta, nel buio fitto solo qualche lumicino qua e là e in cielo un numero infinito di stelle, di masse galattiche, di nebbie siderali. L’alba che sorge rapida, così come il tramonto, alle spalle illumina prima le ambe e poi via via la valle come a togliere un mantello. A sorpresa nel giardino dell’albergo le marmotte e sui pali di recinzione una decina di falchi, altri a volteggiare sul bordo della valle sfruttando le correnti d’aria ascendenti. Sul villaggio tra i tucul e le case con i tetti di lamiera incombono grumi di nebbia da cui spuntano le cime degli eucalipti.
Produzione di ciottoli di pietra
Appena fuori dall’albergo sul bordo della strada c’era un cantiere per la produzione di ciottoli di pietra di varie dimensioni, di una noce, di una mela o più piccoli, per gli usi più diversi: sottofondo, betonata, massicciata ecc. Un gran numero di donne adibite al trasporto dei massi da spaccare che raccoglievano sul pendio della montagna, mentre altre dotate di cesti da porsi sulla testa trasportavano il prodotto degli addetti a spaccare le pietre, uomini seduti a terra che con mazze e martelli riducevano i grossi massi che le donne portavano loro vicino. Un telo sorretto da due bastoni proteggeva dal sole battente gli spaccapietre. Erano questi posti in sequenza in modo che ognuno lavorava una specifica dimensione di sasso. Ai nostri occhi un lavoro non concepibile nell’ambito del progresso tecnologico odierno.
All’entrata dell’albergo c’è un cippo che ricorda l’intervento dell’Unesco per la protezione delle chiese rupestri e la costruzione della camionabile. Qui ho incontrato un gruppo di ragazzi, studenti di scuola media, che hanno voluto darmi l’indirizzo e-mail della scuola per contattarli e tenere corrispondenza.
Yemrehanna Kristos
0 km di strada sterrata buona e 11 km di sterrato pessimo. Tutto il percorso è stato un incrociare di uomini, donne, giovani e anziani, bimbi, gregge di capre, pecore, zebù, asinelli con carichi inverosimili di fascine, legno, paglia, sacchi di granaglie, bidoni di plastica, sterco di vacca essiccato ecc. Il trasporto fatto chi sulla testa, sulle spalle, a zaino. La gente scendeva dal fianco della montagna come tanti rivoli e si incanalava sulla strada come fosse un fiume, tanto che le nostre auto erano costrette a una continua gincana tra uomini e animali. Tutti andavano in direzione Lalibela per il mercato settimanale.
Un dettaglio: le fascine erano vendute per essere utilizzate nella formazione, insieme a fango, paglia e sterco di mucca, a coibentare le pareti dei tucul. Questo andare di persone, cose e animali è stato ininterrotto, anche se con minore intensità, per almeno 30 km. Nessun mezzo di trasporto a motore, bicicletta, carretto, carriola, solo a piedi.
Prendiamo una laterale e comincia lo sterrato sconnesso, un continuo saliscendi sul greto dei ruscelli asciutti. Dopo 10 km dalla deviazione arriviamo ad un villaggio di tucul, forse era giorno di festa perché gli uomini, con il loro onnipresente bastone, erano riuniti a gruppi per discutere, cantare e fare musica. Per venti minuti siamo saliti per una ripida scalinata mozzafiato che ci ha portato alla chiesa costruita all’interno di una grotta che si apre ampia e bassa sul fianco della montagna. Sul soffitto della grotta si osserva la sezione di un ammasso di colonne basaltiche pentagonali, il pavimento è percorso da una miriade di rivoli d’acqua provenienti dal cuore della montagna. Pertanto la chiesa appoggia le fondamenta su uno strato di legno di olivastri che consentono all’acqua di scorrere e alla struttura della chiesa di stare all’asciutto. Abbiamo potuto vedere, da un pozzetto di controllo sotto il pavimento, lo scorrere dell’acqua tra grossi tavoloni di una decina di centimetri di spessore di legno. Il tutto è lì da 800 anni.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!”, Libro I, pag. 175-178