Nell’osteria “Alla Rampa” della zia Norma, dove avevo iniziato il mio tirocinio di cameriere, ragazzo di bottega tuttofare, acquisti di sigarette eccetera, tutti fumavano e buttavano cicche dappertutto. Era cosa da uomini, le donne non fumavano, al massimo ciccavano, masticavano o annusavano tabacco.
La sigaretta
Un bel giorno decisi di entrare nel mondo dei grandi. Avevo sicuramente meno di nove anni. Rubai una sigaretta della credenza della zia Norma, dal cassetto in cui le teneva per venderle sciolte agli avventori dell’osteria. Era normale che gli uomini andassero dal tabaccaio a comprare sigarette sciolte, la povertà! Presi un paio di fiammiferi dove sapevo che la zia li teneva per accendere la grande stufa della cucina. Quatto quatto andai nel baraccotto-cesso esterno alla casa vicino ai campi di bocce e mi fumai la sigaretta A.O.I. (Africa orientale italiana), la sigaretta emblema del conquistato Impero da poco acquisito. Fu tutto un tossire, appena fuori dal cesso vomitai, come si suol dire, anche l’anima. Rientrato, la zia preoccupata per il mio pallore mi diede un bicchiere di aranciata che mi risollevò. Fu l’unica sigaretta che toccai nella mia vita.
Un furterello
Ogni settimana portavo del pesce fritto in casa di Concolato, un capo reparto della Zedapa che abitava in via Tommaseo sopra la bottega del barbiere Mario, di cui dirò parlando del primo bombardamento a Padova. Ero solito, dopo la consegna del pesce fritto, allungare il percorso fino all’incrocio con via Foscolo. Proprio all’angolo c’era una latteria dove in vetrina c’era una terrina colma di spumiglie, stavo lì a guardare un po’ e melanconicamente me ne tornavo a casa. Un bel giorno, o brutto, dipende dal punto di vista, al mattino del giorno di consegna del pesce fritto rubai, dal cassetto della credenza che la zia utilizzava come cassa, cinque centesimi. Non mi sentivo in colpa.
Sollecitai la zia a friggere il pesce, con sua sorpresa. Finalmente posto il cartoccio caldo nel cestino, per inforcare la bici della zia dovevo pedalare in piedi, perché non arrivavo alla sella, via di gran corsa dai Concolato. Misi in tasca la caramella di mancia e via alla latteria. Un po’ timoroso entrai e chiesi cinque centesimi di spumiglia. La signora mi guardò sorridendo e me ne dette una intera. Credo di non aver mai gustato un dolce come quella spumiglia. Non ho mai avuto il rimorso per quel furto, credo di non averlo mai confessato.
17 luglio 2024 – Vecchi raccontini
In osteria
- I clienti tipici dell’osteria:
- quelli della domenica in gita appena fuori porta
- quelli del gioco di bocce del Dopolavoro della Zedapa
- quelli del dopo cena
- quelli del sabato col gioco delle carte
- quelli dell’ombra mordi e fuggi
- i ferrovieri aldilà della palizzata, tutto il giorno
- quelli che andavano al lavoro al mattino presto per la graspeta
- quelli che tornavano dal lavoro la sera per la stessa graspeta
- quelli per il pranzo, pochi, di passaggio.
Per quelli della domenica, che erano sconosciuti o saltuari, dovevamo stare molto attenti anche perché erano tanti. I tavoli da sei persone erano una quindicina. Sulla gamba di ogni tavolo avevo scritto un numero in modo che la zia Adele, la sorella della zia Norma che veniva la domenica ad aiutare, potesse scrivere le ordinazioni in corrispondenza. Questo rendeva facile il lavoro anche a me, che ero responsabile delle bevande, vino, gazzosa, aranciata, chinotto e dell’acqua della pompa. Era tutta una corsa. La zia in cucina a preparare i piatti da portata, pesce fritto, patate fritte, uova dure a mucchi, pane.
Discorsi da grandi
Tutte le altre categorie di clienti erano conosciuti e c’era un rapporto di fiducia, la zia non faceva conto sospeso a nessuno. Dettagli su quel mondo di persone se ne potrebbero descrivere, ma per essere efficaci bisognerebbe avere la penna di un poeta per coglierne lo spirito. Quelli che puntualmente si sbronzavano, quello che imbrogliava al gioco delle carte, quello che raccontava storie fantastiche la sera dopo cena attorno al tavolo di cucina, che a fuoco spento diventava un centro di convivialità. La spocchia dei campioni di bocce, sembravano pescatori che raccontavano del pesce così grosso che ha rotto il filo della lenza ed era fuggito!
Senza parlare poi di quando il discorso scivolava sulle donne, la zia Norma filava in sbrattacucina a lavare i piatti, mentre io, che per tutti facevo parte dell’arredamento, rimanevo. Uno del dopocena una volta raccontò che a militare, era dei granatieri a cavallo, un mattino l’ufficiale di picchetto passò nella camerata per buttar giù dalla branda i ritardatari. Uno era sdraiato di schiena coperto dal lenzuolo, in corrispondenza dell’inguine il lenzuolo era ben rialzato. L’ufficiale con lo spadino d’ordinanza affibbiò un fendente di piatto a quella protuberanza. In un fiato tutti furono in piedi. Scoppiai a ridere, così si resero conto che c’ero anch’io.
Gazzosa col vino
Sempre di quei tempi lo zio Bruno, non ancora sposato, abitava con la zia Norma, perciò lo vedevo sempre. Aveva due amici, Molena che abitava a ridosso della Chiesa della Pace con un figlio più piccolo di me, l’altro si chiamava Ferro, che poi ritrovai in Zedapa quando cominciai a lavorare nel 1946. Frequentemente i tre amici con noi due ragazzini andavamo sui colli, noi piccoli seduti sul tubo, si diceva sulla canna, della bicicletta. Ogni tanto ci fermavamo per ripristinare la circolazione del sangue alle gambe. A Tencarola, subito dopo il ponte all’angolo della strada per Abano, dritti si andava a Teolo, facevamo la fermata di rito alla Trattoria da Arturo. Per gli uomini l’ombra di vino Torbiolino, lo spuncion de nerveti e un uovo, per noi piccoli gazzosa sporcata col vino. Allegria. Si arrivava a Monteortone o a Torreglia. Qui pan biscotto e soppressa per tutti e per noi gazzosa sporcata di Torbiolino. Poi il ritorno a casa. Alla sera raccontavo l’avventura alla mamma.
I tedeschi in osteria
Con l’inizio della guerra sulla adiacente ferrovia passavano spesso treni provenienti dalla Germania carichi di carri armati, camion, auto, cannoni e treni tradotta con militari tedeschi. Normalmente i treni facevano sosta logistica per i bisogni degli uomini e rifornimento di carbone e acqua per le vaporiere. Quando arrivavano le tradotte l’osteria era invasa di uomini, una confusione a non finire, ma senza problemi, così pareva a me.
Quando il treno era di trasporto di mezzi militari gli uomini al seguito erano in pochi perciò tutto si svolgeva con calma. Avevo l’incarico di accompagnarli alla pompa dell’acqua, quella a leva, perché si lavassero! Come compenso mi davano delle fette di pane nero che a me piaceva molto, o una specie di torta, tipo la nostra “pinza”, dura e secca, però davvero buona. Per arrivare in osteria i soldati dovevano scavalcare la palizzata di cemento che divideva i binari dalla via Goldoni, per me altissima.
Per entrare fra i binari avevo trovato un altro modo: un po’ più in là c’era un pezzetto di palizzata rotta alla base, tanto che ci passava un piccolo cane e io, sia pur con fatica. Andavo fra i binari per raccogliere pezzi di antracite che cadevano casualmente, a volte non casualmente, dal tender della maseneta, la vaporiera dello zio Mario.
Approccio
Il sabato pomeriggio, con gli amici ci eravamo accordati di andare, non certo alla balera, ma a giocare a ping pong alla pasticceria Pancera in Prato della Valle, c’è ancora. Pancera è un tipico nome della Valle del Piave, gelatai sparsi per tutto il mondo. Facevano un frappè da sballo: uno dei due tavoli da gioco era occupato così ci dividemmo. Io e alcuni altri decidiamo di andare al bar Borsa, in via E. Filiberto angolo via Grito, a giocare a boccette, un gioco un pochino trasgressivo poco consono a ragazzi di patronato, eravamo in fase trasgressiva, 16 anni. La sala biliardi era nella cantina del Borsa, una sala fumosa, un po’ scura, dove in una zona separata giocavano professionisti e si diceva girassero molti soldi nelle scommesse. Bassifondi della città.
Troviamo un tavolo, non tutti potevano giocare. Dovendo attendere il proprio turno un gruppetto decide di fare un giro in piazza. Davanti al bar Graziati c’era un folto gruppo che guardava il gioco delle tre campanelle, molti puntavano qualche lira per scoprire dove si nascondevano la pallina sotto la campanella, si faceva il tifo.
Gli amici mi dicono che tornano al Borsa, io rimango a vedere ancora qualche giro, non gioco e non ho mai giocato a nessun gioco d’azzardo. Vengo spinto da tre ragazzine che volevano vedere. Una delle tre era piccolina, l’ho lasciata infilarsi davanti a me, tanto non mi impediva di vedere. Facevamo il tifo insieme. Dopo un po’ si gira e non vede più le amiche, era diventato buio. Mi sembrava impaurita, “Hai paura di perderti?” le chiedo. “No, ma ho paura di andare a casa da sola”. “Dove abiti?”. “Al Torresino” mi dice. “Sono due passi, ti accompagno”, ingenuo io.
Ci avviamo, sono dieci minuti di strada, camminavamo svelti, lei quasi correva date le gambe corte. Al ponte di via del Seminario gira per Riviera Camposampiero, era una zona un tantino malfamata, il borgo della Paglia, gira ancora in via della Paglia sotto i portici stretti e bassi, c’era un buio pesto. Si ferma davanti a una porticina e mi dice: “Sono arrivata”, mi si avvicina, si alza in punta di piedi e mi stampa un bacio, grosso, su una guancia e scappa. Sono rimasto stralunato. Ho aspettato un po’, non so cosa e sono tornato in centro quatto quatto. Tanto gli amici non si erano neanche accorti della mia assenza. Giocavano. Forse ero diventato adulto?!
Toni Schiavon , “Mi sono sbottonato” pagine 19-23