Qualche giorno fa ho riordinato le note di un viaggio in Serbia, quando casualmente ho incrociato i luoghi di un mio precedente viaggio di lavoro. Mi trovavo in albergo a Kraljevo dove erano ospiti anche una ventina di uomini provenienti dalla FIAT di Cassino che operavano nella fabbrica di auto Zastava nella città di Kragujevac, lontana una sessantina di chilometri. Erano tecnici con funzione di addestramento del personale e l’avvio e la manutenzione di impianti in un luogo dove non è stata ancora raggiunta, dopo quarant’anni, l’autonomia tecnologica
Vorrei raccontare il motivo del mio viaggio di lavoro del 1981 in Zastava, che descrive il ristagno evolutivo del popolo serbo o, come io penso, la barriera al progresso imposta dal pensiero egalitario del comunismo. Dirò anche di altri due viaggi in diversi paesi dove vigeva il regime comunista. Potrei dire anche di altri, sempre dell’est europeo: Slovenia, Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria. Lascio al lettore di queste mie esperienze trarre le conclusioni.
Serbia, la Zastava
Il primo viaggio fu in Serbia, allora Jugoslavia di Tito, alla Zastava di Kragujevac, fabbrica di auto costruita dalla FIAT per la produzione della 127, da noi ritenuta obsoleta. L’anno era il 1981. Lavoravo come direttore in una fabbrica milanese di stampi per minuterie metalliche e plastiche.
Avevamo avuto la commessa per la fornitura di uno stampo di quattro impronte per l’impugnatura di un mitra. Un oggetto molto tecnico, di precisione e complesso, il cui costo era di oltre un centinaio di milioni. L’abbiamo costruito, collaudato in presenza del cliente, consegnato le campionature, dal cliente accettate, e corrispondentemente pagata la fornitura da noi fatta completa di istruzioni d’uso e caratteristiche della materia prima da utilizzare, di cui abbiamo fornito congrua quantità per le loro prove di avvio.
Dopo qualche mese ci comunicarono che il prodotto non corrispondeva a quanto richiesto e chiesero il nostro intervento per l’adeguamento. Servirono due mesi di tempo perché i nostri legali precisassero la legalità della nostra posizione, dopo di che convenimmo di fare una visita in Zastava. Accompagnato dal mio capo ufficio tecnico ci incontrammo, via aerea, a Belgrado dove ci aspettavano gli incaricati della Zastava, il commissario politico di fabbrica e l’ingegnere responsabile di produzione. Nessuno parlava correttamente una lingua comune.
Dopo due ore di auto arrivammo in fabbrica e quindi in un ufficio al secondo piano di un edificio a ridosso dei capannoni di produzione. Dell’entrata dirò più avanti perché si riferisce ad un altro aspetto dell’argomento “sistema sociale”. Si trattava di un’ampia sala riunioni in cui i finestroni davano all’interno del reparto presse per lo stampaggio di materie plastiche. Con mia sorpresa il reparto era fermo, gli operai erano sparsi qua e là in capannelli, alcuni leggevano, altri giocavano a carte. Non c’era ancora l’interprete per cui non potevo chiedere informazioni. In quel momento nella sala c’eravamo noi due e l’ingegnere di cui sopra. Dopo un quarto d’ora arrivano altri due e dopo un po’ altri tre, tutti si siedono e non parlano. Dopo mezz’ora arriva il commissario con l’interprete accompagnati da altri due. Nessuna presentazione, nell’aria c’è tensione.
Quello che sembra il capo invita il responsabile del controllo qualità-prodotto ad esporre le anomalie. Questi presenta una tabella con segnate le differenze riscontrate rispetto al disegno dell’articolo. Chiedo di vedere il disegno, non ce l’hanno, corrono a prenderlo, il gelo aumenta. Arriva il disegno che confronto con quello in mio possesso controfirmato dalla Zastava ed è diverso in alcune parti. A mio parere è ininfluente dal punto di vista di quanto dovevamo definire, ma lo era invece per il commissario politico che vedeva la prima testa da decapitare. Superato il controllo qualità, chiesi di visionare i parametri d’uso dello stampo: pressa, temperature. Corrispondevano.
Dico che possiamo controllare direttamente le diciture sul sacco della materia prima quando andremo in reparto produzione. L’ingegnere responsabile della produzione dice che il reparto è fermo pertanto se vogliamo vedere la pressa funzionare dobbiamo aspettare l’indomani. Il capo-capo perde le staffe, il commissario ghigna, gli altri vorrebbero sparire. Chiedo comunque di andare in reparto per vedere la materia prima, scendiamo le scale in corteo ed entriamo in reparto, gli operai continuano a fare le loro cose: giocare a carte, chiacchierare, leggere, come non ci fossimo. Ci avviciniamo alla pressa ma non ci sono sacchi di materia prima, un operaio interpellato dice che è stata tutta utilizzata e quindi non è possibile controllare. Il capo-capo impreca, il commissario ghigna.
Intervengo dicendo che all’indomani mattina avremmo potuto adoperare la materia prima da noi inviata dall’Italia per le prove. Consenso generale. L’operaio poco prima interpellato si avvicina all’ingegnere di produzione e gli dice che quella materia prima non c’è più, è stata già adoperata molto tempo fa. Il capo-capo riesplode, il commissario ghigna. Intervengo ancora dicendo di chiedere al controllo qualità del prodotto il risultato dell’analisi fatta sul lotto prodotto con la materia prima italiana, il cui responsabile afferma di non aver ricevuto campioni del lotto in oggetto, mentre il responsabile di produzione dice di aver consegnato il prodotto direttamente alla spedizione in quanto urgentissima. Il capo-capo crolla, il commissario ghigna.
Mi rivolgo all’interprete dicendomi impotente contro le difficoltà della vita. Riferisce al capo-capo il quale mi chiede scusa per l’accaduto. A questo punto suggerisco due soluzioni: acquistare in Italia la materia prima, oppure costruire alcune parti dello stampo idonee alla loro materia prima. Tutti lasciano la sala per tirare le conclusioni, lasciandoci con l’interprete che ci offre un bicchiere di bibita al lampone pessima.
Approfitto del momento di stasi per chiedere lumi sulle presse ferme e gli operai inoperosi, mi dice che manca la materia prima legata alla crisi del petrolio, una delle ricorrenti crisi del mercato del petrolio dell’ultimo quarto del secolo scorso. Gli operai non possono essere lasciati a casa perché non sono coperti da nessun ombrello economico, tanto già l’azienda è statale e quindi è comunque coperta.
Volevo concludere legandomi a quanto avevo osservato entrando in fabbrica. Arrivati con l’auto da Belgrado, lasciata nel parcheggio aziendale e attraversato un cancelletto sempre aperto e un po’ penzoloni, ci incamminammo per un marciapiedi di cemento rialzato rispetto al prato, raggiungendo la palazzina degli uffici. Lungo il bordo sinistro del marciapiede avevano scavato un fossatello dove scorreva un liquame di indubbia provenienza, i gabinetti, anche per l’inconfondibile odore. Oltre l’entrata della palazzina degli uffici, sulla sinistra si trovava infatti una schiera di gabinetti da cui usciva il liquame che alimentava il fossatello, sulla destra una porta che dava nel reparto di produzione dove si vedevano le presse ferme e gli operai che giocavano a carte e di fronte le scale per la sala riunioni e altri uffici. Mi sono fatto una domanda, dato che si tratta di una fabbrica di auto con migliaia di dipendenti e non di un artigiano che può anche disinteressarsi all’estetica!
La risposta l’ho avuta nel 1988 a Leningrado, ora San Pietroburgo, nel terzo capitolo di questo scritto.
Polonia, Cracovia
Il secondo viaggio, in realtà precedente al primo citato, è in Polonia alla Metalloplastica di Cracovia. Una fabbrica di minuterie metalliche proprio del tipo da noi definito tradizionale: occhielli, rivetti, bottoni automatici, fibbie, ganci, più un settore dedito alla plastica. Era l’anno 1973.
Mi trovavo a Varsavia per presentare l’offerta per una linea di bottoni automatici completa di stampi, presse, assemblatrici e la responsabilità di avviare il processo.
L’avviamento produttivo era stato chiesto all’ultimo momento proprio a Varsavia, per cui la mia reazione è stata quella di capire in quale contesto produttivo andavano a collocarsi i macchinari proposti. Era la prima volta che avevo contatti con il mondo produttivo dei paesi dell’Est. Questo primo incontro mi è stato molto utile per i molti altri che ho avuto successivamente.
Già la presentazione dell’offerta è stata traumatica, mi aspettavo di incontrare un tecnico che avesse conoscenze meccaniche con il quale confrontarmi. Eravamo al Ministero del Commercio, uno di quei tipici palazzoni sovietici tetro e scuro, l’interno era costituito da una miriade di piccole stanze dove i fornitori da tutto il mondo venivano accolti, un tavolo, quattro sedie, poca luce.
Attendiamo almeno mezz’ora e si presenta una ragazzina, come ne avevo viste altre nei corridoi, pensavo fossero fattorine, che parlava un italiano stentato: era la nostra interlocutrice. Digerita la sorpresa comincio a descrivere l’offerta, sia l’aspetto tecnico che finanziario/economico. Ho subito capito che quello che dicevo era greco antico per la ragazza. L’unica cosa che mi ha chiesto è stato l’inserimento dell’avviamento dell’attività. La mia risposta è stata quella sopraddetta di dover conoscere il contesto dove andava collocato l’impianto e valutarne la fattibilità e i costi. Raccolse le sue carte e la nostra documentazione e se ne andò dicendoci di aspettare.
Dopo quasi un’ora è tornata per chiederci la disponibilità a visitare la fabbrica dove sarebbe stato utilizzato l’impianto. Alla nostra conferma ci lasciò ancora mezz’ora ad attendere. Quando tornò ci dette le istruzioni per recarci a Cracovia alla Metalloplastica e l’appuntamento per reincontrarci in Varsavia dopo il sopralluogo. Ho capito che quelle ragazzine trattavano ogni tipo di prodotto, i più diversi. Questa aspecificità di competenze a trattare specificità complesse mi ha lasciato perplesso, mi sembravano commesse di merceria che vendevano o compravano cavalli!
Folcloristico il viaggio in aereo da Varsavia a Cracovia, un piccolo Fokker, forse 10 posti, l’aeroporto un campo erboso la cui palazzina era come il casello della ferrovia Padova-Fusina alla Stanga negli anni quaranta, si usciva sull’erba direttamente in strada.
Ora descrivo solo quanto inerente lo scopo di questo scritto: il blocco del sistema allo sviluppo, al progresso. Entrati in fabbrica siamo passati attraverso molti reparti di lavorazioni diverse. In uno di questi si producevano fibbie per le cinghiette dei sandali, di varie dimensioni. Ci lavoravano una cinquantina di persone.
Le fibbie sono costituite da tre pezzi: lo scheletro o supporto, il rullino per lo scorrimento della cinghia, l’ardiglione (piolino) per il bloccaggio della cinghietta. I tre pezzi venivano prodotti con macchinari diversi, separatamente e convogliati in contenitori. I tre diversi contenitori venivano dati a delle donne che a mano li assemblavano con l’aiuto di un torchietto manuale a una velocità di 12 pezzi al minuto per operazione: essendo due le operazioni di montaggio, venivano prodotte sei fibbie al minuto. A questo si doveva aggiungere la tranciatura dei tre componenti.
Per confronto descrivo quanto si faceva in Zedapa dal 1947, dove si producevano le stesse fibbie a 150 pezzi al minuto con un’unica operazione di tranciatura e montaggio. Questa tecnologia non era patrimonio esclusivo della Zedapa, ma di tutto il mondo occidentale, perché aperto alla conoscenza attraverso, per esempio, le fiere campionarie e di settore. Come avrei potuto garantire il funzionamento delle nostre forniture in un contesto tecnologico retrodatato di trent’anni? Di chi era la responsabilità del blocco dello sviluppo del progresso? Io dico del “sistema”.
Urss, Leningrado
Il terzo viaggio è del 1988 a Leningrado, in Russia, la nazione madre del “sistema comunista”. Si è trattato della fornitura di un impianto completo di attrezzature dirette e indirette per la produzione di bottoni automatici. L’operazione è stata condotta da una società di import-export, io avrei gestito la parte tecnica dello stampaggio e assemblaggio dei prodotti. Si trattava di una commessa di circa cinque miliardi di lire.
Nel corso del 1987 sono stati fatti più viaggi di messa a punto del progetto e anche qui gli incontri si sono svolti come l’incontro di Varsavia già descritto. Non andrò a descrivere le fasi realizzative del progetto, che sarebbero materia di riflessione relativamente all’oggetto del mio scritto. Alla fine del 1987 vengo chiamato a sovraintendere al collaudo dei 98 stampi e delle 48 assemblatrici in concomitanza con altre aziende che avevano fornito gli impianti galvanici, le macchine utensili per la costruzione e manutenzione degli stampi, impianti di verniciatura, di imballo ecc.
Per la comprensione del discorso descrivo sommariamente la composizione di uno stampo. Si tratta di un telaio in acciaio contenente dei componenti, punzoni e matrici, preposti in fasi successive a trasformare il nastro metallico in occhiello, in rivetto o in parte di bottone. I componenti di ogni stampo fornito erano 300; in quel caso abbiamo fornito una doppia serie di componenti per stampo, dunque 600. Pertanto i componenti di scorta per i 98 stampi erano circa 60.000.
Quei pezzi di ricambio furono inscatolati e catalogati in relazione allo specifico stampo. Si era concordato inoltre che sarei stato presente al collaudo.
Arrivato a Mosca nel tardo pomeriggio, vengo accolto dal solito commissario politico e dall’ingegnere responsabile del progetto. Nessuna lingua comune, si va alla stazione ferroviaria e subito in treno cuccetta per Leningrado, sembrava il treno della Transiberiana: il samovar per il tè nel corridoio a carbone vergine (antracite), fumoso, la cabina con il bagno in comune con la cabina adiacente. Il paesaggio, per quel che si intravedeva, era di boschi e neve. Nessuna fermata, ogni tanto qualche stazioncina, nessuna luce. Alle sette del mattino Leningrado.
Mi portano in albergo, dopo un paio d’ore arriva Katia, l’interprete, che sarà la mia ombra per un mese. Facciamo conoscenza, mi fornisce orari d’incontro e informazioni logistiche relative al periodo di permanenza.
Il mattino successivo alle 8.30 arriva l’auto con Katia, è buio pesto fino alle 10.30 e di nuovo dopo le 16.00. Quasi un’ora di strada nella periferia della città tra palazzoni prefabbricati dormitoi, identici a quelli di Belgrado, Varsavia, Bratislava o Praga. Entriamo in un vasto cantiere edile in attività, era la fabbrica entro la quale erano stati piazzati i macchinari in locali provvisori. Nel cortile, tra mucchi di calcinacci, sabbia, mattoni da costruzione, casse di provenienza estera di macchinari e materiali vari coperti da uno spesso strato di neve. Il viale da percorrere era una gincana tra tombini aperti e pozzanghere. Il tutto al buio con la pila. Eviterò di sottolineare la situazione di caos per tutto il tempo della mia permanenza. Erano previste 2500 persone.
Mi portano alle presse, un freddo incredibile, alcuni stampi erano già stati provati con esito negativo. Quattro stampi erano montati nelle presse ed erano in prova, ma sempre con esito negativo. Mostro a Katia il testo delle condizioni di collaudo dov’era prevista la mia presenza, l’ingegnere responsabile dice di non aver ricevuto nessuna comunicazione. Esigo sia messo agli atti, a protezione di eventuali danni fatti ai macchinari. Procedo a visionare la situazione degli stampi nelle presse, faccio mettere a punto la regolazione delle presse e faccio produrre le campionature, con esito positivo. Ci sono voluti quindici giorni di lavoro per ricollaudare tutti gli stampi.
Avevano prodotto un centinaio di chilogrammi di prodotto scarto in ogni stampo che avevano fatto galvanizzare per essere poi assemblati. Quando sono andato a collaudare le assemblatrici, ho trovato i prodotti scarti dalla tranceria e male galvanizzati, il nichel si sfogliava come pelle bruciata al sole. Dopo aver tranciato i prodotti corretti e in attesa che venissero galvanizzati, ho voluto vedere le scatole con i componenti di scorta degli stampi e qui la sorpresa. Sopra un grande tavolo c’era un cono di punzoni e matrici alto mezzo metro, 60.000 pezzi mescolati con differenze in certi casi di pochi centesimi di millimetro: avevano vuotato le scatole! Qualcuno aveva detto a un operario di svuotare le casse e questi ha capito di dover vuotare le scatole contenute nelle casse. Ho capito che il “sistema” aveva partorito il cancro della deresponsabilità.
Ora rispondo al quesito posto alla fine del primo viaggio alla Zastava. Nel primo giorno di permanenza in fabbrica a Leningrado, ho avuto bisogno di andare in bagno, me l’ha indicato un operaio.
Quando sono tornato, Katia, con molto tatto, mi invitò a utilizzare i bagni della Direzione generale, forse per fare bella figura. Alla prima occasione mi accompagnò al bagno dei potenti, piuttosto lontano, e mi attese nell’ufficio della segretaria del capo. Quando tornai ho voluto che mettesse la testa dentro l’antibagno maschile perché vedesse la situazione. I quattro gabinetti avevano la turca intasata e rasa di acqua, pertanto qualcuno ha pensato di farla nell’antibagno! Questa la risposta di Katia: “Purtroppo abbiamo difficoltà a trovare personale disponibile a fare questo tipo di lavori”. Al mio commento che è solo un problema di compenso, cioè dare un incentivo a chi si rende disponibile a quei lavori, mi rispose “Non si può comprare la dignità delle persone con il denaro”. Non ho più parlato.
Altro aneddoto: una sera tornavamo in albergo dalla fabbrica, era già notte fonda, per un lungo tratto la strada correva a ridosso di una fila di palazzoni-dormitoi. A un certo punto Katia fece fermare l’auto, smontò e andò a bussare a una finestra al piano terra, la finestra si aprì e Katia parlò con una signora. Questa si chinò a raccogliere qualcosa nella stanza e alzatasi consegnò all’interprete un grosso cavolo capuccio. Quando rientrò in auto, senza che lo chiedessi, disse: “Ho provato a fermarmi per vedere se trovavo della verdura perché non è detto che ci sia tutti i giorni”. Ho chiesto: “è un negozio?”. “No, è un contadino che ha il suo orto e quindi può vendere i suoi prodotti coltivati dopo l’orario di lavoro alla Kolchoz (i campi dello Stato)”.
Ancora due righe. Una domenica mattina ero sul ponte che porta alla fortezza di Pietro e Paolo, mi si avvicina un giovane e mi chiede quanti rubli volevo per i calzoni di velluto nocciola che indossavo!
Potrei continuare per almeno altre trenta pagine a raccontare storture e assurdità del “sistema”.