Amaretti e filodrammatica
Dicembre 1947. In parrocchia la filodrammatica metteva in scena una commedia, gli attori impegnati allo spasimo a fare prove. I ragazzi dell’Azione Cattolica erano incaricati di organizzare l’evento, panchine per il pubblico, il palco per la scena, la scenografia, il riscaldamento, la pubblicità. Gli scout, associazione appena nata, erano stati incaricati di organizzare la vendita dei dolcetti durante lo spettacolo.
Una tenda per gli scout
Noi scout avevamo bisogno impellente di una tenda per il campeggio. Ne avevamo vista una dell’esercito che sembrava fatto apposta per noi. Cosa vendere agli spettatori che ci desse un margine economico per l’obiettivo tenda? L’idea di mia mamma Emma: ci avrebbe aiutato a fare gli amaretti. Risultarono un pochino ‘amaretti’, però andarono a ruba. Un gruppo di scout si dedicarono alla raccolta di legna per la cottura dei dolcetti. Mia madre con me all’impasto e cottura. L’acquisto della materia prima non me lo ricordo. Ho una mezza idea che sia stata raccolta tra i genitori degli scout.
Tutto il pomeriggio del giorno dell’evento a casa mia fu una fervente attività di preparazione e cottura degli amaretti. Alle 19 il primo carico partì per il patronato. In sala c’erano già spettatori sulle panchine, sedie, sgabelli. Gli amaretti sfumarono in un attimo. Tornai a casa a sollecitare la mamma ad accelerare la produzione. Tornai a teatro con il secondo carico che stava per iniziare lo spettacolo, la scorta era quasi finita. Con Luigino Sato tornammo a casa per aiutare mia madre a cucinare e arrivare in tempo per l’intervallo. La serata era buia, senza luna, umida e fredda. Di gran corsa per la scorciatoia di via Turazza. E qui l’intoppo.
Sul lato sinistro di via Turazza, davanti alla centrale di trasformazione dell’energia elettrica per il tram per Venezia, c’era un profondo fossato che scolava le acque putride della Viscosa poco lontana. Sentimmo dal fondo del fosso un lamento. Scesi dall’argine trovammo a mezz’acqua un uomo con la sua bicicletta, in stato di evidente ubriachezza, immerso nel fango che si lamentava. Che fare? Con schifo entrai nel liquame e con Luigino tirammo il malcapitato sul bordo della strada. Fortuna volle che si fermassero alcune persone che si presero cura dell’uomo. Noi due al limite dell’assideramento andammo a casa mia.
Mia madre era in pensiero per il ritardo, temeva che la merce restasse invenduta! Luigino che non si era bagnato, si lavò alla buona e corse con gli amaretti a teatro. Io rimasi a casa a lavarmi e cambiarmi e più di tutto a riscaldarmi. Feci in tempo a tornare a teatro giusto per vedere gli spettatori andarsene. Gli amaretti furono un successo, tutti venduti. Finalmente avevamo una tenda.
La centrale di trasformazione dell’energia elettrica
Non è in tema ma vorrei descrivere l’officina di trasformazione dell’energia elettrica di cui ho detto poc’anzi. L’avevo visitata l’anno precedente con la scuola. Si trattava di un grande salone sopraelevato tutto finestrato, invaso dalla luce, il pavimento di piccole piastrelle rosse tirate a cera. Dal pavimento emergevano quattro o sei grossi trasformatori, sembravano enormi chiocciole dipinte di verde. Era tutto molto pulito; si sentiva solo un sordo borbottio. C’erano due operai che controllavano una serie di manometri le cui lancette oscillavano come impazzite. Ero incantato che da quei lumaconi uscisse la forza che consentiva al tram di portarci da Padova a Venezia!
Il tagliacarte
Qualche tempo fa leggevo, anzi rileggevo, “Anna Karenina”. Ricordavo ben poco della prima volta, salvo l’atmosfera. A un certo punto della lettura lessi la frase “…si prese il libro e il tagliacarte” e come spesso mi accade riaffiorarono i ricordi.
Sicuramente era prima del 1950, in una bancarella avevo trovato alcuni grossi libri piuttosto vecchi di aspetto, ma con le pagine ancora da tagliare. Se ne trovavano ancora in giro, anche libri di scuola, stampati su fogli multipli e quindi rilegati a fogli ripiegati, pertanto il lettore doveva tagliarseli. Forse provenivano da qualche fondo di magazzino. Costavano pochissimo e questo era fondamentale per le mie esigue finanze. Non erano autori di grido e piuttosto pesanti da leggere, non importava, era sufficiente fossero parole messe una dopo l’altra a formare pensieri. L’operazione di taglio delle pagine era come aprire uno scrigno, una stanza segreta, insomma una scoperta e quindi qualcosa di più del solo leggere.
La biblioteca del Corso
Un luogo dove mi rifornivo di libri era la Biblioteca Popolare sita sul ponte del Corso del Popolo, proprio sopra la spalla del ponte dal lato della città. C’è ancora la costruzione, adibita ad altro. Mi presentavo con il libro da restituire e me ne uscivo con un altro, magari scelto dalla signora che li distribuiva, pertanto le letture erano le più diverse. Quando leggevo? Dopo le dieci ore di Zedapa restava la notte a letto, che però non era un tempo completamente libero perché quando mia madre si accorgeva che la luce era accesa a ora tarda entrava in camera e la spegneva. Escogitai un modo per non essere scoperto, mettevo la mia rudimentale lampada portatile sotto le coperte e in questo modo finivo il capitolo.
È di quel tempo la costruzione di una libreria girevole a cinque piani quadrati sostenuti da un asse verticale piantato su una base più larga. Averla mi faceva sentire importante.
Il bello delle letture
Da un po’ di tempo, prima di dormire, anziché prendere la camomilla mi faccio una dose di Divina Commedia! Con l’Inferno mezzo canto tra spiegazioni e rime, col Purgatorio una sera le spiegazioni e i commenti di Sermonti, ora che sono in Paradiso qualche terzina e scende l’oblio. Proprio ieri sera, al canto decimo, i versi 136 – 138:
Essa è la luce etterna di Sigieri,
che, leggendo nel Vico de li Strami,
silogizzò invidiosi veri.
Tornai alle spiegazioni di Sermonti il quale dice: “Sigieri insegnava alla Sorbona, l’Università da poco fondata la quale aveva i suoi edifici in un borgo popolare di Parigi, nel vicolo della Paglia o Vico degli Strami”. Niente di strano che anche a Parigi ci fosse un luogo deputato al commercio del fieno e della paglia. Ci sono ovunque, anche qui a Padova. Vado ora a raccontare un ricordo d’infanzia che lo collega alle letture dantesche.
Il Vicolo degli Strami
Durante il mio apprendistato contadino, uno dei miei compiti era pulire la stalla, le mucche, i vitelli e il cavallo. Asportare il letame, composto da feci e paglia, lavare il pavimento con acqua e ripristinare la lettiera con paglia e pula, il residuo che copre i grani del frumento, pulita. Una raccomandazione mi veniva fatta di continuo da mio nonno, di porre la massima attenzione, quando con la forca sparpagliavo la paglia, a non pungere le mucche: c’era il pericolo di provocare il tetano. Lo zio Nino e le zie quando mi chiedevano di prendere dal pagliaio la paglia, la chiamavano paglia. Mio nonno la chiamava strame: “Toi na forcà de strame!”.
Pensavo che gli zii fossero moderni e quindi dicessero paglia, mentre il nonno, vecchio, utilizzava una parola dialettale di chissà quale origine e magari inventata in seno alla comunità ristretta di quel luogo. Ma come Dante poteva conoscere un termine usato da una piccola comunità contadina sperduta nel territorio paludoso della Padania o al contrario, mio nonno, e solo lui e non i figli, conosceva un termine colto che aveva trovato asilo nel massimo libro della letteratura italiana e mondiale?
Già che sono in tema di Divina Commedia sempre al canto decimo, versi 13 -15:
Vedi come da indi si dirama
L’oblico cerchio che i pianeti porta
Per sodisfare al mondo che li chiama
che Sermonti traduce: “Se il mondo non avesse l’equatore inclinato di 23.30 gradi rispetto l’eclittica, non avremmo le stagioni e quindi il mondo sarebbe inabitabile”. Mia interpretazione: portare il berretto sulle ventitrè rimanda all’origine cosmologica messa in evidenza da Dante e così trasferita ad uso corrente?