Libro I Mi Sono Sbottonato!

Lavorare la terra

14 Marzo 2021

L’operazione di vangatura

La vangatura serve a smuovere la terra con lo scopo di renderla friabile affinché le radici trovino facile penetrazione e quindi un profondo radicamento e all’omogenea distribuzione del concime sia esso naturale o chimico.

L’attrezzo più comune per questa operazione è il badile, detto comunemente vanghetto. Questo è costituito da una lama di acciaio di circa 18 cm di larghezza e 23 cm di altezza, opportunamente nervata ai bordi e curvata in tutta la sua larghezza con una freccia di circa 1,5 cm. La parte che penetra nel terreno si presenta di forma triangolare leggermente arrotondata ed è affilata. Dalla parte opposta a quella che penetra nel terreno vi è una parte di lamiera che compone il vanghetto avvolta nella quale viene fissato il manico di legno della lunghezza di 150 cm e di diametro 4 cm, opportunamente arcuato per una facile manovrabilità. A volte si preme con il piede per penetrare nel terreno più profondamente.

Definita la gombina si decide il lato da cui partire. Di solito è il lato corto. Si definisce vangata la porzione di terreno che si smuove ogni qualvolta si pianta il vanghetto. In generale sarà di 5-8 cm e profonda almeno quanto il vanghetto. Ricordo a tal proposito la parabola del padre che mandò il figlio a lavorare il campo alla ricerca del tesoro. Il figlio non trovo il tesoro nonostante lo avesse cercato scavando profondamente per tutto il campo. Sul campo così ben lavorato il padre fece seminare e alla maturazione delle messi il raccolto risultò particolarmente ricco grazie proprio alla profonda lavorazione del figlio sul campo.

All’inizio si fanno due vangature per tutta la lunghezza del lato della gombina dal quale siamo partiti, scaricando la terra alle proprie spalle. Dalla terza vangata si avrà cura che la parte superiore della terra rimossa posi sul fondo del solco. Si avrà cura inoltre di sbriciolare la fetta di terra risvoltata tagliuzzandola con la lama del vanghetto. E così via fino alla fine della gombina. Attenzione a non vangare quando la terra è troppo bagnata, in quanto si rischia di costiparla ottenendo l’effetto contrario di quello voluto.

Una particolare procedura si adotta nella vangatura a fine stagione per preparare il terreno all’inverno. Si procede alla vangatura secondo le precedenti indicazioni, senza però sminuzzare la terra. Questo allo scopo di esporre le zolle al ghiaccio che le sgretolerà, nonché all’aria per farne assorbire l’azoto. Inoltre la terra vangata tiene lontane le zampe dell’uomo da essere pestata e le erbacce.

A primavera si procede a rivangare il terreno secondo la normale procedura curando che la parte azotata entri nel solco affinché le radici ne facciano buon uso. Tornando alla fine della normale vangatura, si provvede con il rastrello a sminuzzare e pareggiare il terreno affinché sia pronto per la semina.

El sinquantin

Nei miei anni di vita contadina, dal 1936 al 1943 durante le vacanze scolastiche, 1944-metà del 1945 a tempo pieno, ho fatto un’immensa esperienza di vita. Una per tutte assistere e aiutare a nascere un vitello tirando con le zie la corda legata alle zampette del vitellino mentre lo zio ne guidava l’uscita.

A giugno, appena tagliato il frumento, venivano fatti i covoni e posti a bordo del campo in attesa del tempo della trebbiatura. Subito il mattino presto si arava il campo con un giogo di sei mucche e il cavallo in testa, era mio compito guidarlo. Perché così di fretta? Si doveva seminare subito il sinquantin, un granoturco a rapida crescita che nasceva e maturava in 50 giorni.

Altri attrezzi di forme diverse che hanno lo scopo di smuovere il terreno

  • Baiie da rassare, il badile da raschiamento che serve per asportare la cotica d’erba, per pareggiare le superfici, dare ordine alle aiuole gombine, gombinee.
  • Baiià, la pala, serve a spostare il terreno, a caricare la carriola ecc
  • Sapa, sapeta, sapetina, la zappa, serve a rincalzare le piantine: i filari di piselli, fagioli, le piantine di pomodoro, melanzane, peperoni, zucchine ecc. Purtroppo la zappa grande nei tempi andati serviva a rompere le zolle lasciate dall’aratro ed era una fatica boia.Rosteo, Il rastrello: di varie larghezze e altezza dei denti. Una volta era di legno con denti alti 8 cm ed era davvero pesante, serve essenzialmente a raccogliere il fieno ma anche a pareggiare la “gombina” dopo la vangatura perché i semi trovino un lato morbido su cui germinare

Ho scritto questa mia memoria per confrontarla con quanto scritto da Joseph Saverschningg, scrittore croato nato a Fiume nel 1769 e citato da Giacomo Scotti nel suo volumetto “Lungo le rotte della Serenissima e dell’Impero- Marinai e poeti, guerre e amori, storie e avventure dell’Adriatico orientale”, edito dal Comune di Monfalcone, pagina 86.

“… nei campi fuori le mura di Fiume il granoturco veniva seminato due volte l’anno. La seconda veniva definita con parola straniera, è detto cinquantin. Nel caso che non desse frutto per condizioni avverse, le pianticelle venivano utilizzate come ottimo foraggio per il bestiame”.

Quanto è piccolo il mondo! Mi domando: Joseph scrisse 250 anni fa. Evidentemente quel termine cinquantin-sinquantin esisteva da chissà quanto. La comunicazione, già precaria con Roma, Parigi o Treviri, certamente non era facile con l’entroterra istriano. Come faceva un’informazione a travasarsi tra il profondo e retrogrado mondo contadino delle paludi padane e le impervie rocce carsiche percorse a fatica perfino dalle orde di Attila?

Il prezzemolo

Sul lettino in spiaggia ero annegato dal sole, sembrava mi avesse chiuso in un bozzolo di torpore. Ho cominciato così a guardare nella biblioteca della memoria a qualcosa di piacevole: cosa di meglio che il giardino-orto-bosco della Betti?

Ero solo, in pieno agosto, a spostare massi per farne selciato. Poi con la mente corsi a oggi, alla scala per salire al nuovo parcheggio. Volevo che la scala fosse in tono e adeguata al magnifico bastione di sostegno. Ho disegnato il progetto alle tre di notte, in una pausa dal sonno dovuta al ritmo prostatico. Ho pensato a una specie di serra protetta dalla bora proveniente da nordest che raccolga però il sole da sud e ovest anche nei mesi invernali.

Non avevo ancora finito lo schizzo che i gangli neurali scavavano nella biblioteca per cercare la radice dell’idea. Eccola. 1936: papà Gino stava dissodando l’orto della casa nuova alla Stanga, nel quale lavoro ero coinvolto anch’io. Un giorno tornato dal lavoro mi disse: stasera prepariamo l’aiuola per il prezzemolo. Scelse una piccola aiuola, forse un metro quadro, posto a sud-ovest, il più soleggiato, lo preparò per bene e seminò il prezzemolo. Mano a mano che cresceva veniva tagliato a filo terra e quindi ricresceva. Così facendo le radici si rinforzavano scendendo in profondità. Venne l’autunno, le piante stagionali sparirono. Il prezzemolo si acquattò sul terreno, sembrava volesse andare in letargo. Cominciarono le brinate, al mattino tutto era bianco di ghiaccioli e così pure il prezzemolo.

Una sera papà Gino tornò con un fascio di canne secche di granoturco. Mi chiamò per aiutarlo a fare, con le canne, quattro pannelli legati con cordini a formare una capanna completa di tetto spiovente e una parete aperta. La capanna fu posta sopra l’aiuola del prezzemolo con il lato aperto a sud. Fu ancorata con lo spago a dei picchetti di ferro piantati nel terreno. Sopra le piantine fu sparso un po’ di fieno, non molto, affinché la luce continuasse ad arrivarvi. Ricordo che con la neve, a volte spessa 30-40 cm, tutto l’orto era bianco compresa la capanna. Attraverso l’apertura si vedevano macchioline di verde sotto i fili di fieno sparsi.

Più avanti nel tempo scoprii che in campagna si faceva in questo modo per garantirsi qualche verdura particolare oltre alle verze e ai cavoli tipiche dei mesi invernali. A primavera il prezzemolo era il primo a risvegliarsi con i crochi blu e gialli che bucavano l’ultimo straterello di neve. La prima sera che a cena appariva il prezzemolo sulle patate in insalata era festa. Arrivava il tepore. Potevamo dimenticare i ghiaccioli sui vetri delle finestre e le lenzuola gelate appena intiepidite con un mattone riscaldato nel forno della stufa a legna, all’altezza dei piedi sempre pieni di geloni.

Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!”, Libro I, pagina 39-42

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