Mezzi di trasporto per le attività contadine di una piccola azienda a conduzione familiare intorno al 1940.
Trasporto persone
LANDÒ: carrozza a quattro ruote, due grandi e due piccole, chiusa con sedili morbidi con finestre. Trainato da un cavallo era per quattro persone più il vetturino. Di uso saltuario quasi nullo, forse retaggio di tempi andati.
BARONSINA: carrozza più piccola a due ruote medie, scoperta, con sedili morbidi per due persone. Trainato da un cavallo di uso domestico, raro. Sostituita dalla bicicletta.
Trasporto cose
CARETA: carro a quattro ruote piccole, a pianale aperto, per il trasporto di cose su strada abbastanza buona. Trainata da un cavallo (memorabile una gita sui colli con i ragazzi di Noventa padovana, forse una trentina, con le gambe penzoloni fuori bordo).
CARETO: carro a due ruote medie che ha al posto del piano di carico una botte per trasporto di acqua per innaffiare. Oppure una grossa tinozza per il letame liquido. Oppure la botte del solfato per irrorare le viti di anticrittogamici. Quest’ultimo è trainato dal cavallo, a volte anche da una
mucca in particolare per dare il solfato: perché richiede pazienza nel continuo andare e fermarsi per dare tempo al contadino di spruzzare il solfato di rame diluito sulle foglie delle viti.
BARA: un carro a due ruote grandi, Ø m1.50, per il trasporto del fieno con carichi incredibili per altezza e larghezza. Il fieno esce fuori bordo fino a un metro e arriva fin sopra la schiena del cavallo che lo traina fra le stanghe. Si può vedere qualcosa di analogo, ma ancor più sorprendente, oggi in India, anche su superstrade a quattro corsie. Sono trattori che trainano carete a ruote piccole a pneumatici sulle quali viene issato un enorme blocco di fieno contenuto in un enorme telo di juta o plastica che esce fuori bordo almeno m 1.5 da ambo le parti, per cui su una strada normale si forma una coda infinita, la superstrada si ingorga fino al paese successivo dove si spera che il trattore esca. Ho avuto modo in un paio di occasioni di assistere allo scoppio del telo con il carico che si sparpagliava in una nuvola: dimenticavo di dire che per ragioni di trasporto il fieno viene sminuzzato…
BAREA: carro a due ruote medie che è il factotum per ogni esperienza di spostamento di cose e uomini, infatti ha un tavolo di traverso per sedile.
BAREA DEL LEAME è una CARETA a due ruote medie che serve per trasporto del letame per essere sparpagliato sul campo prima dell’aratura.
Ci sono poi vari tipi di carriole: da letame con pianale, da acqua con botte, da cose varie, per trasporto terra a contenitore. Ce n’era una da passeggio che serviva per portare piccole quantità nei dintorni senza per questo spostare il cavallo, che era tenuta pulita e presentabile ed era molto leggera. Questo arsenale in uso fino agli anni ‘50 è stato scalzato prima dalla bicicletta/triciclo poi dal trattore
La ferratura dei cavalli
Mi piace raccontare quanto mio padre mi raccomandava, negli anni prima del 1940: di prestare particolare attenzione nell’andare in bicicletta. Cari nipoti, ve lo racconto come lui, mio padre, me lo diceva: “Stà tento Toni de no corare massa visin l’orlo dea strada, perché te sbusi ea camara d’aria dea bicicletta coi ciodi che perde i cavai”
Pensate un po’ quante cose ho accumulato nell’archivio della mia mente e quanto è difficile trovare un po’ di spazio, in questo archivio, per infilare dentro ancora qualcosa che esce da quel vaso di pandora che voi chiamate chiavetta. Abbiate un po’ di pazienza e comprensione.
Gli alberi erano, di solito, platani ed erano posti ad una trentina di metri tra loro. Ad altezza d’uomo erano imbiancati di calce con una fascia alta circa un metro che aveva lo scopo di rendere visibile l’albero di notte per le biciclette, i carri e le poche auto di allora. I fossati erano mantenuti puliti con cura e nel loro alveo non nascevano cespugli; l’erba era puntualmente tagliata. I chiodi erano quelli che si staccavano dagli zoccoli dei cavalli che trainavano i carri per il trasporto delle merci.
Una volta l’anno lo zio Nino mi diceva: “Oggi ndemo a ferare Chichi”, il vecchio ronzino baio. Andavamo in centro a Noventa Padovana dove dentro un grande stanzone, buio e sporco, c’era la forgia accesa e qui cominciava il rito di ferratura. Lo zio alzava una zampa del cavallo e il fabbro con la tenaglia tranciava i vecchi chiodi dallo zoccolo togliendo così il ferro di cavallo consumato. E così via per le altre. Quindi con una tenaglia apposita bene affilata pareggiava, accorciandolo, lo zoccolo, pronto così per alloggiare il nuovo ferro. Da una lunga collana di ferri, il fabbro sceglieva quello di misura più adatta; lo scaldava al color rosso e lo appoggiava sullo zoccolo di Chicchi perché si adattasse perfettamente. Era questo un momento di particolare tensione, la nuvola di fumo che si sprigionava al bruciare dello zoccolo, l’odore di bruciato, Chicchi che guardava intorno con aria interrogativa per tutte quelle novità, io che lo accarezzavo sul muso, anche baciandolo e parlandogli.
Raffreddato il ferro cominciava l’operazione di chiodatura: il fabbro prendeva una manciata di chiodi, lunghi almeno cinque centimetri e se lo metteva tra le labbra, il martello e il ferro. Lo zio teneva la gamba alzata. Il ferro veniva appoggiato nella sede creata dal ferro arroventato e quindi chiodato. I chiodi venivano piantati da sotto ed uscivano dall’unghia ad almeno tre centimetri dal fondo e qui venivano risvoltati perché non uscissero più. Lo zio, a questo punto, pagava il fabbro a baratto con granoturco o frumento. Sulla strada di ritorno Chicchi batteva in modo diverso gli zoccoli sulla strada e sembrava volesse dire: “Guardate, ho le scarpe nuove!”.
Dato che stiamo parlando di zoccoli, vi racconto anche della pedicure delle mucche. Anche a queste una volta l’anno dovevano essere accorciate le unghie; nelle mucche sono due per piede. Il problema è che le mucche, a differenza dei cavalli, non stanno ferme, per cui bisogna immobilizzarle. Con una corda e un bastone di trenta centimetri si legava una gamba dell’animale e attorcigliando la corda con il bastone creando una tensione per cui perdeva la sensibilità dell’arto. A questo punto con una spinta la si ribaltava a terra e così lo zio poteva provvedere al taglio delle unghie, con una tenaglia bene affilata. L’operazione si ripeteva per le altre zampe, poi la mucca liberata se ne andava un po’ zoppicando.
I cavalli da tiro
Tornando ai cavalli da tiro, ricordo il via vai di carri che trasportavano blocchi di roccia al cementificio di via Trieste. In via Trieste all’angolo con via Ugo Bassi sorgeva il cementificio. Proprio parallelamente a via Bassi, c’era la tramoggia dove i carri si avvicinavano per versarci il loro carico di roccia, piccoli massi di cinque-dieci chilogrammi. Sul fondo della tramoggia c’era una cloche che spingeva i massi sotto i rulli trituratori e da questi al ciclo per la produzione di cemento.
Ma non volevo parlare del cemento, bensì dei cavalli. Erano tutti massicci, dalle zampe larghe, a volte poco sopra gli zoccoli avevano un folto cespuglio di peli lunghi che ad ogni passo dondolavano in sintonia con la criniera. Il carro, in dialetto bara, quella più piccola barea, aveva due grandi ruote di legno con il cerchione in ferro e veniva colmato di masegne.
Mio papà diceva che i carrettieri lavoravano dal mattino prima dell’alba fino a sera col buio. Noi ragazzini ci divertivamo a salire sul carro, dal retro, per farci trasportare. Naturalmente all’insaputa del carrettiere; quando ci scopriva ci inseguiva a colpi di frusta.
Toni Schiavon , “Mi sono sbottonato” pagine 28-30