Avevo pochi anni, forse 5 o 6, e guardavo con sorpresa i colombini che uscivano dall’uovo. Papà li allevava. Il fenomeno lo capivo: la colomba teneva al caldo le uova, qualche volta anche il colombo. Sapevo distinguere il maschio dalla femmina. Dopo un po’ di tempo uscivano i colombini. A proposito di uova di covata la zia Giulia ogni tanto li guardava uno alla volta in controluce per vedere se il pulcino cresceva regolarmente. Il processo era sufficientemente chiaro per non pormi altre domande.
La cosa diventava tutt’altro che chiara con i conigli. Durante il giorno davo qualche manciata di erba ai conigli nelle gabbie. Un bel giorno mi trovai di fronte un coniglio, non distinguevo il maschio dalla femmina, che portava in giro per la gabbia un coniglietto senza pelo con gli occhi chiusi poco più grande di una cavalletta. Corsi da mia madre a chiedere spiegazioni, che mi liquidò dicendo: “Chiedilo a papà!”. Questi cercò di spiegarmi che erano nati da mamma coniglia. Non ho capito niente ma ho preso atto! Lo stesso successe con i gatti. Anche in questo caso vidi la gatta andare in giro con un batufoletto di pelo in bocca, con i denti sul collo del piccolo.
Il ciclo della nascita
Intanto mio papà cominciò a portarmi in campagna dai nonni materni. A volte rimanevo qualche giorno. Nel tempo di vacanza da scuola mi trasferivo per mesi dai nonni. Fu durante queste permanenze che scoprii il ciclo delle nascite di conigli, cani, gatti, topi, volatili dell’aia e pollaio, dei maiali e delle mucche delle quali darò dettagli. Ho cominciato a correlare i maschi alle femmine, non certo per specifici fatti giustificativi, ma solo per quelle cavalcate che faceva il gallo sopra le galline, per i miagolii umani notturni dei gatti che inseguivano le femmine, le cavalcate del cane sulla cagnetta dei vicini, che li rincorrevano lanciando loro zolle di terra per farli smettere. Questo è stato il secondo passo verso la conoscenza del fatto che il maschio e la femmina dovevano in qualche modo mettersi insieme perché si realizzasse il nascimento. Questo è quello che gli zii mi avevano fatto capire in risposta alle mie domande.
Finalmente i fatti che mi chiarirono tutto. Primo: da qualche giorno la Mora, una sorana, giovane mucca, era irrequieta, quando la portavo all’albio, abbeveratoio, cercava di scappare saltellando qua e la`. Lo dissi allo zio. Il giorno dopo lo zio mi disse: “Tonin dopo magnà te ghe da portare ea Mora dai Masucato perché ea gà l’estro”. “A che fare?” chiesi. Rispose lapidario: “I Masucato i ga el toro”. Ero preoccupato perché abitavano ad almeno due chilometri da casa nostra, avevo paura che la Mora mi scappasse. Avevo nove, dieci anni. Nel pomeriggio partii, un bastone in una mano e la corda-guinzaglio nell’altra, per tenerla a bada. È stato faticoso. Arrivato dai Mazzucato, il nonno di casa, che io conoscevo, mi fece portare la Mora tra due stanghe di legno poste tra loro a una larghezza di circa un metro e chiuse sul davanti da una traversa. La metto tra le due stanghe, la lego alla traversa e torno alla stalla. Nonno Mazzucato mi manda dietro la casa. Mi avrebbe chiamato a lavoro finito. Naturalmente ho subito ubbidito. Ho girato attorno alla casa e sono andato a postarmi dietro un cespuglio dalla parte opposta alla “stazione di monta”, cosi` si chiama il luogo, in modo da assistere all’evento senza essere visto.
Dopo qualche minuto uscì dalla stalla, condotto dal nonno Mazzucato, il toro, un mostro imponente bianco maculato grigio. Finora avevo visto solo buoi che sono altrettanto grandi ma che hanno l’aspetto di cuccioli di pecora in confronto. Il toro sembrava arrabbiato con tutto il mondo. Camminava lentamente, quasi distratto, poi di colpo ha strattonato il nonno e con una breve corsa ha raggiunto la Mora che era lì come vittima sacrificale. Il toro non si è neanche fermato, si è alzato sulle posteriori cadendo così con le anteriori sulla schiena della Mora. Il nonno prende in mano un giavellotto di una cinquantina di centimetri che spuntava dalla pancia del toro, del quale io non mi ero accorto perché troppo teso a vedere il bestione librarsi in aria per calarsi sulla Mora. Nonno Mazzucato ha spostato la coda della mora e ha indirizzato il giavellotto sul retro della vittima sacrificale. Tutto si svolse così rapidamente che vidi il toro già sceso dalla Mora che se ne tornava lento in stalla. Sentii una voce dirmi: “Tonin totea e portatea casa”. Nonno Mazzucato mi aveva ovviamente visto dietro il cespuglio. Slegai la Mora che fece il ritorno calma calma, rilassata e tranquilla, le era passato l’estro.
Il vitellino
Sono passati un paio di mesi e la Bisa, che era incinta, un pancione enorme, era inquieta. Lo zio disse a zia Giulia: “Go paura che stanotte el na`sa”. Io dormivo in corridoio, sentii lo zio chiamarmi. Era notte fonda, raggiunsi la stalla, c’erano già le zie. Lo zio mi disse di preparare un letto di paglia molto alto dietro la Bisa. Lui stava frugando con tutto l’avambraccio dentro la vagina della Bisa che stava quieta. Tirò fuori il braccio, prese una corda che aveva un laccio già pronto, rientrò nella vagina, frugò ancora un po’ e disse: “Tira”. Le zie tirarono e un po’ alla volta uscì il vitello, arrivato a metà uscì di slancio cadendo sulla paglia che avevo preparato. Lo zio portò il vitellino vicino alla testa della madre che cominciò a leccarlo. Nel frattempo avevo raccolto la placenta nella carriola, era ormai l’alba, ho portato la carriola al letamaio e ho sepolto la placenta per evitare che gli animali la portassero in giro. Con questo evento ho concluso il mio corso pratico di educazione sessuale.
Toro e bue…
Mi era però rimasto un dubbio o mistero che dir si voglia: perché i buoi sono cosi` diversi dal toro? La differenza da me osservata era che il toro aveva tra le gambe posteriori alla base del giavellotto una borsa contenente due grosse uova come quelle delle oche. Non ho chiesto lumi, non sapevo cosa chiedere. E qui la svolta.
Qualche giorno dopo la zia mi chiese di aiutarla in un lavoretto come quello fatto per impongare le oche. Come in precedenza dovevo prendere uno alla volta dei galletti molto giovani. Con gran fatica ne presi uno e glielo portai. La zia era seduta su una bassa panchetta, in fianco aveva una forbice, dello spago sottile e un grosso ago. Prese il galletto, lo mise tra le ginocchia con la testa in giù e, spiumate un bel po’ di piume attorno all’ano, con un colpo di forbice taglioò la pelle per un paio di centimetri, infilò un dito nella ferita ed estrasse degli ovetti. Scopro che sono i due ovetti che la nonna mi mette sul piatto quando cucina un gallo insieme con la cresta, i barbagli, le zampe, la testa e il boccone del prete costituito questo dalla parte posteriore che supporta la coda. Con l’ago e lo spago ricuce la ferita e libera il galletto. Il poveraccio rimane fermo, sbalordito e poi parte a razzo. Per giorni saraà inavvicinabile. Abbiamo ripetuto la cosa per una decina di volte e realizzato un piattino di ovetti da fare al pomodoro.
Chiesi alla zia il perché di questa operazione. La zia, senza dare rilievo alla cosa, rispose: per fare i capponi. Sono quei grossi polli, molto ricercati specialmente a Natale, per fare un bollito sublime. Mi spiegò che togliendo loro gli attributi sarebbero cresciuti di più di peso, con una carne più morbida e saporita. Non sarebbero più idonei alla funzione svolta dal gallo, con le sue cavalcate sulle galline, a fertilizzare le uova rendendole adatte a far nascere i pulcini.
Solo a questo punto ho collegato la borsa porta-uova del toro con il suo comportamento fiero, nervoso, insolente a confronto con i buoi docili e pazienti, che non le avevano. Pertanto, per una qualche ragione che avrei scoperto più avanti, le nascite di vitelli e pulcini erano legate alle cavalcate dei maschi sulle femmine.
Toni Schiavon , “Mi sono sbottonato” pagine 43-46