Già dai primi giorni di scuola elementare fino agli anni Cinquanta del Novecento ho visto il transito di barche che risalivano il Piovego. Ogni volta mi incantavo a guardare i movimenti del barcaiolo e del cavallo o dell’uomo che trainavano la barca dall’argine.
Che cosa trasportavano le barche?
Principalmente carbone vergine, antracite e in quantità minore sabbia. Dirò prima della sabbia. Proveniva dal Brenta, tra Limena e Strà era tutto uno scavare dal greto del fiume. La sabbia portata dall’acqua dalla lontana Valsugana si formava per decantazione. Circa lo scavo non so dire molto. Ho visto solo di sfuggita i sabionari all’opera. So solo che in casa di mio nonno contadino tra il Brenta e il Piovego si diceva che lo scavare sabbia era un lavoro da miserabili, degli ultimi tra i poveri. Dal luogo di scavo la barca carica fino all’orlo, pochi centimetri sopra il pelo dell’acqua, scendeva il Brenta fino a Strà, quindi risaliva il Piovego fino a incontrare le porte di sbarramento a Noventa Padovana. Qui si doveva fare l’operazione di risalita tramite il ‘vascone’. Si trattava di un’operazione che si fa ancora oggi per il Burchiello.
Le fasi del trasporto della sabbia
Le barche da carico non ci sono più. I miei nonni contadini abitavano nelle vicinanze, per cui avevo spesso occasione di vedere le varie fasi di chiusura e apertura delle porte del vascone. Superate le porte fluviali, il barcone veniva ricollegato al cavallo adibito al traino. Il collegamento veniva fatto con una grossa fune legata alla prora della barca e l’altro capo al balanzin. Lo si chiama balanzin perché durante il traino a ogni passo del cavallo sussulta, quasi balla. È un traverso di legno sul quale è legata una fune che viene dalla barca e alle due estremità due funi che lo collegavano al ‘comacio’ posto sul collo e petto del cavallo. Il cavallo camminava normalmente sul colmo dell’argine, alla base del quale, vicino all’acqua, a volte era scavato un viottolo per cui il traino della barca era più agevole. Spesso la barca era trainata da un uomo bardato quasi come il cavallo. Entrambi grondavano sudore, nel cavallo il sudore diventava schiuma che si sfaldava con i suoi passi. Quando al traino c’era l’uomo, forse erano barcaioli poveri, l’uomo al timone aiutava a spingere piantando una lunga pertica sul fondo del fiume e, camminando contromano sul bordo della barca, aiutava.
Interessante l’operazione di superamento dei ponti. In prossimità del ponte la corda veniva sganciata dalla prora e il cavallo se la trascinava a vuoto oltre il ponte. Nel frattempo a forza di pertica piantata sul fondo o sulla riva la barca sbucava dall’altra parte e quindi ricollegata alla fune del cavallo. Assistevo incantato alle manovre. Naturalmente poi dovevo correre per arrivare a casa o a scuola in tempo.
Una volta arrivata ai “Sabbioni”, situati a metà strada tra Porta Portello e il Bastione di Raggio di Sole sulla riva orografica sinistra, la barca veniva ancorata con due corde a prora e poppa. Di questo posto ci sono ancora tracce. Due o quattro tavoloni congiungevano la barca alla riva quindi i cariolanti cominciavano lo scarico della sabbia. In salita, a carriola piena, prendevano la rincorsa, doveva essere una fatica infernale, per arrivare al pianoro dove si formava una montagnola. A questa montagnola attingevano i carri per il trasporto della sabbia ai cantieri di costruzioni in città.
Il trasporto del carbone
Il flusso più intenso di barche era quello del carbone. Queste arrivavano al Gasometro di via Trieste, a un centinaio di metri dal Corso del Popolo. Lo scarico del carbone dalle barche avveniva con una benna agganciata a una cabina mobile aerea, che percorreva su una struttura metallica a ponte il tragitto dalla barca all’interno della fabbrica, a ridosso dei forni adibiti alla produzione del gas, distribuito poi alla città. Il ponte scavalcava via Trieste.
La scuola, in prima avviamento al lavoro, ci portò a visitare la fabbrica per la produzione del gas. Era un’enorme fornace suddivisa in tanti settori all’interno dei quali l’antracite infuocata liberava il gas che veniva convogliato al Gasometro. La parte solida veniva raffreddata con acqua, sprigionando nuvole di vapore bianco, diventando così carbone coke (infatti il complesso si chiamava ‘cokeria’) che viene adoperato come combustibile in alternativa alla legna. Gli uomini adibiti a caricare l’antracite nella fornace erano neri e sudavano nero. Il caldo era insopportabile. Nel 1956 ho rivisto un impianto simile a Francoforte sul Meno presso la Durfferit, produttrice di materiali chimici. Anche qui lo stesso inferno anche se meno caotico.
A proposito di visite scolastiche, nello stesso periodo, abbiamo visitato una fonderia all’Arcella vicino alla ferrovia, anche qui forni di colata infernali, polvere, aria irrespirabile. Restavo incantato a vedere la ghisa liquida che raffreddandosi prendeva le forme più strane dentro nei calchi e stampi. Era tutta una sorpresa. Stavo scoprendo il mondo.
Toni Schiavon , “Mi sono sbottonato” pagine 14-16