Un altro mondo
Una ventina di chilometri e comincia l’immensa distesa di Eldhraun, una colata lavica fuoriuscita da un cratere lungo 25 km che ha coperto un’area di 30 kmq. La massa lavica è visibile perché si è solidificata in costoloni direzionati fino al mare. Su tutto incombono due ghiacciai, il Kaldbakur e lo Skàlahei∂i. Ci siamo fermati a Hòlmur, piccola località nelle cui vicinanze ci sono alcune case dell’800 ricoperte di zolle erbose, utilizzate fino al 1968 e abbandonate a causa della morte dell’ultimo conoscitore dei tragitti per uscire dalla zona paludosa in cui era costruito il villaggio (prima della costruzione della statale 1 con i suoi ponti), anche la piccola chiesa è ricoperta di zolle erbose.
Dopo un tragitto di una trentina di chilometri si entra in un altro mondo, un immenso ghiaione immerso nell’acqua che scorre. È un lungo tratto, di circa 90 km, attraversato da centinaia di fiumi che si intersecano tra loro e che scorrono su un pianoro costituito da scorie ghiaiose portate dai ghiacciai che coprono il grande vulcano Vatnajökull e i suoi satelliti del lato sud-ovest. Questa immensa distesa di detriti e acqua in movimento mi ha ricordato l’ampia zona di riflusso della marea sulla costa del Gujarat, in India, dove ogni giorno il mare entra ed esce creando correnti vorticose.
Proseguendoo sulla costa orientale dell’isola, l’oceano a destra, a sinistra pareti rocciose, per una strada impervia giungiamo al faro Hvalnes, posto su un promontorio incombente sul mare. Vento, cielo coperto, i colori vivaci del faro che danno tono al paesaggio. Riprendiamo il percorso costeggiando vari fiordi in un paesaggio monotono e disabitato fino ad entrare nel Berfjö∂ur, un fiordo molto profondo, per tornare quindi sull’oceano fino a Os. Itinerario su strade deserte, a volte sterrate, con pochissimi abitanti.
La parte interna nord-orientale, per più di un centinaio di chilometri è stata abbandonata dopo l’eruzione del vulcano Askja del 1875, che ha ricoperto di lava e più ancora di ceneri una vastissima zona dell’Islanda. Tutti i paesi segnati sulla carta, e sono pochi, sono costituiti da una, due, massimo 5 abitazioni. La cittadina di Grímsstaðir ha 180 abitanti e l’aeroporto annesso ha un hangar di lamiera simile a una stalla e una baracca di legno di una decina di metri quadrati. Nei primi 25 chilometri ci sono tre fattorie. Il territorio fino a Mývatn è deserto e senza erba, solo ciottoli e massi, distese laviche. Scavalchiamo il ponte, il più alto di Islanda, sul fiume Jökulsá. C’è molta acqua ma non vegetazione. Da questo punto si entra nella zona più colpita dall’eruzione, massi di 30-50 cm all’infinito. Scolpito in questo altipiano il canyon scavato dal fiume Jökulsá, che alimenta la cascata Dettifoss dalla portata più grande d’Europa, 200-1500 mc al secondo, il canyon profondo 100 metri, largo 500 e lungo 25 km. La cascata fa un salto di circa 40 metri, è impressionante, ci si può avvicinare fino a 2-3 m e alla stessa altezza del filo superiore dell’acqua. Non si può descrivere il rumore, nuvole di “polvere” d’acqua e il muoversi di questo mostro liquido. Fa freddo, vento, piove. Un altipiano lunare appena mitigato qua e là da qualche macchia di licheni e qualche cuscino di fiorellini montani.
Il rifugio degli dei
Passato il ponte che valica lo Jökulsá, appena uscito dal canyon che qui si allarga a formare un largo delta per versarsi dopo 5 km nell’oceano, entriamo con una corta deviazione in un altro canyon secco, coperto di piccole betulle, scavato nel pianoro a un’altezza di un centinaio di metri: Ásbyrgi, “rifugio degli dei”, dove la leggenda vuole siano fuggiti gli antichi dei rinnegati dal popolo islandese che ne aveva gettato le rappresentazioni nella cascata di Goðafoss. Incanto: la leggenda vuole che questo canyon a forma di ferro di cavallo sia l’impronta del cavallo del dio Odino.
Freddo, nebbia, pioggia. Nell’unica costruzione che fa da distributore di benzina c’è un piccolo negozio di generi i più diversi, che fa anche da tavola calda per una scodella di un saporito minestrone.
A Hùsavìk, in attesa di poter avere la stanza in albergo entriamo nella chiesa luterana le cui origini sono del 1300; il parroco, giovane e bello, ci descrive la chiesa, i dipinti i cui volti sono dei paesani. Leggiamo il libro della parrocchia, nati, battesimi, matrimoni, morti, parroci, organisti: la vita della comunità. Per una trentina di chilometri la vallata è verde e coltivata, poche le fattorie. Poi inizia un deserto lavico prodotto dalle eruzioni del piccolo vulcano Krafla, sulle pendici del monte, un vasto campo di fumarole, pozze ribollenti, depositi di sali dai molti toni dell’ocra e del giallo, piccoli rii di acqua calda. Netta la sensazione che ogni momento possa sorgere un’eruzione. Giù a valle la centrale elettrica geotermica verso la quale convergono una miriade di grossi tubi metallici che portano l’acqua calda alle turbine, provenendo anche da chilometri di distanza. Tutta la zona è un susseguirsi di fumarole, crostoni lavici, colate interrotte, fessure nel terreno che fumano. Ovunque festoni lavici cristallizzati, tutti spigoli, evidente la recentissima formazione. Odore di zolfo ovunque. Dal bordo superiore del vulcano si vede la caldera riempita di acqua azzurra. I geologi dicono che è già pronta per una nuova eruzione. Dietro uno sperone inizia, sul pianoro verso nord, un susseguirsi lineare di fumarole che si perdono alla vista evidenziando la latente attività vulcanica della zona.
Costeggiamo il lago Myvatn in senso orario e ci fermiamo al parco naturale Hofdi: strane formazioni laviche spuntano dall’acqua a formare processioni di piccoli faraglioni. C’è una presenza notevole di moscerini. Il lago è detto anche dei moscerini. Presso il villaggio di Skútustaðir c’è il sito dei pseudo-vulcani, coni alti fino a più di 50 metri con una piccola caldera al culmine, prodotti della fuoriuscita di bolle di gas e provenienti, attraverso dei camini, dalle profondità della crosta terrestre.
Arriviamo a Fossholl sul ponte che supera il fiume Skjálfandafljót all’uscita della Goðafoss “la cascata degli dei”. C’è sole, fa freddo e vento. La caratteristica di questa cascata è di avere due vie di caduta a due livelli diversi come fosse alimentata da due fiumi. Un primo tratto di una quindicina di chilometri è ubertoso, coltivato. Poi un lungo tratto, 50 chilometri, scabro, incassato tra le rocce fino a Vi∂ivellir. A Reykir, abitazioni scavate sotto un pendio e ricoperte di zolle erbose. Poi un lungo tratto di zone coltivate, con fattorie, molto frequenti le mandrie di cavalli islandesi che vivono entro aree recintate molto ampie allo stato brado. Trattasi di una razza evoluta a sopportare condizioni climatiche difficili.
Ritorno a Reykjavík
L’area nord ovest e ovest è la più abitata e fertile dell’isola perché meno esposta alle attività vulcaniche che sono preponderanti attorno al vulcano principale, il Vatnayökull. Superiata Blönduós, cittadina sul fiordo Hùnaflòi che costeggiamo fino a Brù per poi arrivare a Reykholt, località legata alla memoria del poeta condottiero Snorri Sturluson del 1200, che qui visse e fu assassinato. La sua casa, scavata nel terreno, è ricoperta di zolle e ha una pozza di acqua calda connessa. Piccola biblioteca-museo.
A Varmaland visitiamo una stazione di pompaggio di acqua calda che, attraverso lunghe condotte di tubi è mandata alle città limitrofe fino a Reykjavík. Nelle vicinanze una serie di serre vetrate alimentate delle sorgenti calde producono ortaggi tutto l’anno perché oltre alla climatizzazione anche la luce è prodotta geotermicamente. Si vedono attraverso i vetri piante di pomodoro alte vari metri. Si prosegue verso sud, Borgarnes, Akranes, quindi il lungo tunnel sotto lo Hvalfjör∂ur, Mosfellsbær e Reykjavík.
Visitiamo Reykjavík, città dall’aspetto prettamente europeo comune ai paesi nordici. Nonostante l’isolamento rispetto al resto del mondo ha mantenuto le note caratteristiche europee. È evidente il legame con la Danimarca. Ha però sviluppato in particolare in campo letterario un proprio filone. Interessanti le saghe raccolte sviluppate dai suoi poeti. Bello il museo nazionale Thjodminjasafn, con un’interessante sezione sulle attività della pesca e dell’industria connessa.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!”, Libro I, pag. 162-164