Una piramide etrusca
Un mio amico, appassionato archeologo, ha trovato in una rivista di cose di tempi andati poche righe sul ritrovamento di un manufatto etrusco nei dintorni di Bomarzo, paese del viterbese noto per il giardino dei mostri, una sequela di statue di figure mostruose. L’articolo evidenziava il ri-ritrovamento, in una zona impervia, ricoperta da una fitta barriera di rovi e arbusti tanto contorti da renderla impenetrabile, oltre a numerose case, caverne e rovine di costruzioni abitative, di quella che viene chiamata la piramide etrusca.
Perché ri-ritrovamento? Nel XVIII secolo un nobile inglese, seguendo le indicazioni di scritti romani circa la presenza di manufatti etruschi scoprì appunto la piramide. Ne fece una descrizione e lasciò traccia epistolare della cosa. In poco tempo la selvaggia vegetazione di cui sopra ricoprì la piramide e altre tracce e ruderi, per cui se ne perse la memoria.
Un testardo appassionato
Non molti anni fa un giovane del luogo, amante della storia locale, delle tradizioni e del folklore, socio dell’associazione cacciatori di cui tutti fanno parte, in cui la memoria collettiva locale è coltivata e trasmessa, si trasferì per lavoro, il territorio natale è avaro di opportunità, in Trentino, in un’impresa di asfaltature stradali. Si sposò. Una grave malattia della moglie lo costrinse a rientrare nella casa paterna per curare oltre alla moglie anche l’anziano padre.
Riprese così a coltivare la sua passione per le tradizioni locali. Nelle sue ricerche incappò nella notizia data dal nobile inglese circa la presenza di rovine etrusche e per lui fu facile collegarla a quanto raccontavano il vecchio padre contadino, il nonno pastore e il bisnonno, anche lui pastore di capre e maiali. Sulla base di questi racconti piuttosto dettagliati sull’ubicazione di certe caverne scavate nel tufo utilizzate come rifugio per gli animali, cominciò a cercare trovando molte conferme alle informazioni paterne. Infine trovò la piramide. Non disse nulla a nessuno, volle accertarsi che fosse proprio quella. Ha dovuto abbattere alberi, rovi, liane, arbusti, asportare strati di terreno fino a evidenziarne almeno la scalinata. A questo punto avvertì l’Intendenza delle Belle Arti. La burocrazia lo espropriò del luogo perché il manufatto era troppo importante per lasciarlo in balia di un incompetente anche se volonteroso e così, dopo una stagione, la vegetazione aveva ricoperto e fatto sparire tutto.
Lui però aveva continuato le sue ricerche e trovò sotto una polla sorgiva un complesso di vasche scavate nella roccia, adibite dagli Etruschi alla pigiatura dell’uva. In proposito ci ha fatto notare che tra i rovi e le liane del sottobosco spuntano qua e là, in tutta la zona, tralci di viti selvatiche sicuramente discendenti delle vigne coltivate dagli Etruschi prima e dai Romani poi, per perdersi successivamente nel buio dell’alto medioevo tra la caduta dell’Impero romano e le invasioni barbariche, al regredire della civiltà, fino a rimettersi in moto nel secondo millennio. Nelle vicinanze ci sono anche rovine delle fondamenta di un villaggio.
Torniamo alla piramide. Gli esperti delle Belle Arti si resero conto che il giovane, oltre a una incredibile passione, aveva anche competenza e gli hanno riconosciuto il ritrovamento e la custodia del sito.
Tradizioni locali e scoperte archeologiche
Singolare la modalità con cui il mio amico riuscì a individuare questo giovane. Per organizzare la visita ha telefonato al Municipio del paese, che segnalò come interlocutore l’associazione cacciatori, a conferma dell’importanza degli stessi, i quali lo misero in contatto con il giovane. Insieme organizzarono la visita.
Da Viterbo, dopo una decina di chilometri, arrivammo al campo sportivo perso in un pianoro in mezzo a colline ricoperte di quella vegetazione ruvida come gli uomini che l’abitavano, magri e spigolosi di aspetto e di parlata.
Quando ci vide, ci guardò con aria dubbiosa e ci disse pari pari: “Siete sicuri di farcela?” Risposta: “Chi non ce la fa si ferma e aspetta!”. Aveva ragione circa le difficoltà, la strada era una carrareccia tortuosa in saliscendi che diventava viottolo di cui a volte si perdeva la traccia. Gli ultimi 100 metri furono fatti più o meno a carponi.
Al ritorno ci siamo fermati al podere del padre, oliveto, noccioleto, cordiale ospitalità nella baracca del podere. La loro abitazione è in paese. Come tradizione del luogo la comunità vive in paese e si trasferisce ogni giorno in campagna, costume dovuto a tempi andati quando il paese fortificato era rifugio sicuro. È evidente un’agricoltura povera molto faticosa da realizzare, da qui il carattere della gente a dir poco “ruvida”. Al confine del podere esce dal terreno un grosso muro, una cinquantina di metri di macigni squadrati le cui origini non sono conosciute, a conferma che la zona, in tempi forse non storici o dei quali si sono perse le memorie, era vissuta. Lasciamo molto da scoprire ai nostri figli.