Sono seduto lungo il corridoio del reparto di chirurgia oncologica dell’ospedale Giustinianeo di Padova, sono circa le nove del mattino. Sono con la Paola in attesa di notizie sull’intervento chirurgico alla spalla di Mauro. Sulle sedie vicine ci sono tre persone, una famiglia, i genitori di 60-70 anni e una ragazza di circa 25 anni. Parlano in dialetto decisamente padovano ma con vocaboli, alcuni, desueti. Anche l’accento ha qualche inflessione inconsueta ma non sconosciuta.
La Paola se ne va e io rimango per attendere notizie di Mauro. Un infermiere parla con la famiglia accanto e dopo un po’ si allontana con la madre e la figlia. Il padre sembrava voler scambiare quattro chiacchiere alle quali mi sono prestato. Cominciò col dirmi della salute della moglie, ha un’infiammazione linfatica ad una caviglia, è reduce da varie operazioni di asportazione di linfonodi in varie parti del corpo, un calvario insomma. Dice che sono alloggiati alla “Casa del Pellegrino”, in quanto provengono dalla Sardegna. Purtroppo nell’isola non ci sono i macchinari idonei alle cure di cui abbisognava la moglie. Descrive i disagi del viaggio, dovendo partire dalla zona del Campidano ad una ottantina di chilometri da Cagliari. Questo ad aumentare la già pesante situazione della malattia della moglie.
Il discorso era ben avviato, quindi mi è stato facile chiedere del suo esprimersi, e dei suoi familiari, in dialetto, oltretutto senza nessun influsso sardo. Mi dice di avere sessantotto anni, è quindi del 1945. Suo padre ancora bambino è emigrato in Sardegna nel 1928 per la bonifica dell’agro del fiume Campidano, contemporaneamente ad altre famiglie delle campagne padovane, vicentine, bellunesi, trevigiane che popolavano i paesi sorti ex-novo per ospitare gli immigrati.
Ricordo in proposito che alle elementari il maestro Ballotta ci parlava delle bonifiche in corso nelle paludi pontine e nel campidanese allo scopo di eliminare la malaria e di recuperare quelle terre all’agricoltura di cui l’Italia aveva estremo bisogno. Questo era ben evidenziato dalla famosa “battaglia del grano” che i gerarchi fascisti pubblicizzavano mostrandosi a petto nudo a trebbiare il grano.
Questa situazione di popolamento di una zona malarica completamente priva di popolazione autoctona, con un notevole apporto di persone provenienti da paesi diversi, sia pure veneti, ha fatto sì che la comunità potesse rimanere chiusa tra compaesani senza mescolarsi con i sardi, quindi mantenendo il dialetto, le tradizioni civili, religiose e culinarie, i giochi dei bambini, le favole, i racconti familiari, nonché il modo di coltivare la terra. In generale il trasferimento del vivere degli anni ‘20-‘30 del secolo scorso del Veneto di quelle zone. Non solo ha conservato quella cultura ma ne ha bloccato la naturale evoluzione da noi avvenuta. E ho trovato risposta alla perplessità sorta all’inizio di questo scritto circa il modo di parlare, l’uso di certi vocaboli e di certi accenti che non riuscivo a spiegare.
Il discorso è proseguito poi sui cambiamenti avvenuti nel tempo, l’abbandono delle colture di cereali, ora sostituite dalle colture atte alla produzione di carne. Lui stesso si è riciclato dall’agricoltura tradizionale all’allevamento, da anni fa il tecnico zoologo adibito all’inseminazione delle fattrici.
Voglio concludere evidenziando come quel ragazzetto emigrato nel 1928 sia riuscito a trasferire, in qualche modo, la nostalgia delle sue origini al figlio nato dopo diciassette anni, non solo, ma che questi sia riuscito a passarla alla figlia nata cinquant’anni dopo. Certamente non con qualche viaggio nella “terra dei padri” bensì vivendola tutti i giorni in famiglia.
Un inconsueto e strano viaggio fatto seduto nell’astanteria di una sala operatoria e durato una quindicina di minuti.