C’è un calo di vittime, è benvenuto, però inspiegato. Più voci invocano maggiori cautele in attesa di chiari segnali sulla direzione di marcia del virus! La Germania per voce della Merkel dice: stiamo entrando nella fase più dura. Non è un buon segnale.
Da “Mi sono sbottonato”, Libro secondo, numero 98 ho tratto uno scritto che inserisco in questo diario. Anni fa mia nipote Marta, studiava all’Università Cattolica di Milano, Scienze Sociali, mi chiede di raccontarle qualcosa sul mio mondo del lavoro. Riporto qui di seguito una memoria e in coda alcuni pensieri/domande pertinenti.
Il tempo, 1968-1978, fine di una visione del mondo, del modo di vivere. Si impose il concetto del diritto di avere tutto e subito. Dei doveri non si doveva parlare. Un diritto acquisito fra i tanti la pensione con 19 anni lavorativi. Di questa vicenda fu vittima emblematica l’azienda in cui lavoravo dal 1946 come ragazzo di bottega fino a direttore di stabilimento. Di quel periodo molto ho scritto, poco ho detto di quello che ho patito, fu un diluvio universale.
Andai migrante in Lombardia a dirigere un’azienda similare, solo 2 anni. Ero sradicato dalla famiglia e dal contesto sociale. Fui contattato da un’azienda che voleva acquisire le mie conoscenze, sempre della Lombardia, per trasferirle al suo interno. Convenimmo però che il miglior modo per raccogliere le conoscenze tecnologiche fosse la costituzione di una unità produttiva a Padova, culla allora della cultura delle lavorazioni di minuterie metalliche, delle quali la ZEDAPA era capostipite e alla quale avevo contribuito non poco creare. Fu così che nacque questa unità sperimentale che univa ricerca e produzione le cui esperienze venivano via via trasferite alla casa madre. Alla fine degli anni Ottanta fu acquisita una commessa per un grosso impianto produttivo di bottoni di metallo per un paese dell’est. Per me fu un lavoro esaltante sul quale espressi le mie conoscenze. Da questa avventura tecnica ho avuto modo di vivere in un contesto politico opposto a quello italiano, che fu l’ispiratore di quel nefasto periodo 1968 – 78 che portò al disfacimento del tessuto sociale del nostro paese. Ritengo che non siamo ancora usciti dall’equivoco diritti-doveri. Sono trascorsi 30 anni dalla nascita di quella azienda pilota ma la crisi più lunga del dopoguerra mi ha costretto alla chiusura. La globalizzazione incombeva.
A questo punto mi si è presentata una nuova opportunità a 7000 chilometri da Padova, India. Il compito: costituire una unità produttiva analoga alla mia in India, partendo da una base tecnologica simile a quella che noi avevamo nel 1946. Mi sono chiesto: dov’è la globalizzazione? Ho capito perché nel mondo esistono differenze sociali estreme che la “rete” dovrebbe eliminare facilitando la trasmissione delle idee, delle conoscenze perché tutti ne traggono beneficio. Così non è: evidentemente ho l’impressione che gli algoritmi, da buoni robot quali sono, siano utilizzabili per ottimizzare la finanza, gli obiettivi e non le diseguaglianze sociali, anche in casa nostra.
Spigolature. La crisi finanziaria 2008-2016: a chi vogliamo dare la colpa?
- Alla finanza? Fa il suo lavoro al meglio visto che non ha cuore!
- Ai poveri del mondo? Che vedono in tv come noi gozzovigliamo e vogliono imitarci?
- A noi italiani che vogliamo di più? Non guardando al debito che rimandiamo alle future generazioni?
- Ai giovani che non capiscono e/o non vogliono sapere che vivevamo senza acqua in casa?
- O forse perché non vogliamo leggere la realtà che impone la legge dei vasi comunicanti? Perché i romani non riuscirono a fermare i barbari? Così come noi non possiamo fermare i profughi. Già Mussolini aveva previsto il pericolo giallo.
- Perché non riusciamo a fermare le delocalizzazioni che tanta disoccupazione provocano. Forse Trump pensa di farcela con il muro con il Messico? È una pia illusione.
- Perché la Germania riesce a galleggiare? Tutti dicono che i tedeschi ci sfruttano con le loro regole austere. Dove eravamo noi cicale quando abbiamo costruito il debito pubblico e loro, tedeschi, facevano le riforme e lavoravano? A me pare persino semplice evocare la favola della cicala e della formica!
- I soloni si scagliano contro la mancata “ricerca”, “innovazione”? Perché mandavano i giovani in pensione? Io sono andato in pensione a 53 anni con 38 anni di contributi e poi ho lavorato fino a 81 anni, pagando regolarmente la copertura assicurativa. Lo stato non avrebbe potuto risparmiare almeno 10 anni della mia pensione? … e via elencando!
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!” Libro secondo, numero 98