Per whatsapp mi arriva una foto di Carlo e Brenda con una didascalia: “Siamo sul Cippo Comici!”. Uno sperone di massi e qualche ciuffo di erba rinsecchita, più in là una foresta di pini e all’orizzonte un letto di nuvole. Solo il giorno dopo ho capito che era il mare. Memoria e fantasia si sono mosse ad elaborare ipotesi. Comici, il grande scalatore dolomitico, era con Maestri nei sogni di noi adolescenti.
Subito ho pensato alle Tre Cime di Lavaredo, nelle vicinanze delle quali c’è il rifugio a lui dedicato. Mi domandavo come fosse possibile che alle 19.30, ormai all’imbrunire, i due ragazzi fossero in quei luoghi. Poi si è chiarito che si trattava del cippo che si trova in Val Rosandra nei pressi di Trieste, città natale di Comici.
Una gita in bicicletta
La vicenda ha aperto un vaso di Pandora. Era il 1947, o forse il 1948, quando ebbi il mio primo incontro con la montagna. Avevo 17 anni e lavoravo già da due. A maggio mi avevano acquistato la bicicletta, sportiva, si diceva così perché aveva il manubrio di forma dritta e non come quelle dei matusa, le gomme più leggere e, cosa più importante, il cambio che consentiva di affrontare le salite con più facilità. Finora il percorso per arrivare alla Zedapa lo facevo a piedi.
Naturalmente come tutti i ragazzi della zona frequentavo il patronato degli Ognissanti. Penso che fossimo almeno un centinaio. Non ricordo come, ma nacque l’idea tra alcuni dei giovani più grandi di fare un giro in montagna durante le ferie di agosto. Chiesi se potevo partecipare, era il più giovane, mi accolsero. Non ricordo in quanti partimmo. Ho memoria di Alberti, Francescon, Sato, Bernardi, l’unico che non fosse del patronato, adulto, buon ciclista e uomo di montagna che faceva da capo-gita. Era della Zedapa. Gli altri non riesco a inquadrarli nella memoria, eppure li vedo in fila indiana a spingere sui pedali.
Dormimmo a Vittorio Veneto in uno “stallo”. Cos’è uno stallo? È l’epigono della medievale stazione di posta per il cambio dei cavalli. Un grande portone di legno, un vasto cortile circondato dalle stalle per i cavalli, i portici per carri e carrozze, le stanze per i viaggiatori. Aveva le stesse funzioni dei caravanserragli della Via della Seta. Ho memoria di uno imponente in Armenia a più di 3.000 metri di altezza tra picchi innevati. A Padova ne ricordo uno in via Porciglia, dal “Moretto”, ancora funzionante negli anni ‘47-‘48 all’inizio dei portici, poi trasformato in custodia biciclette. In via Soncin c’è un portone con inciso sulla pietra “Stallo Soncin”.
Al mattino molto presto si ripartì per la valle del Piave. Squero-Ospitaletto-Longarone-la Cavallera, con i suoi duri tornanti-Calalzo. A sinistra la valle del Boite per Cortina. Continuammo a seguire il Piave fino ad incontrare la val d’Ansiei che ci porterà ad Auronzo. Seguendo il Piave si arriva a Sappada e alle sue sorgenti. Dimenticavo di dire che le strade erano “bianche”, di terra battuta e ghiaino, polverose e pericolose, ogni caduta era uno sfregio per le gambe nude. La strada un corridoio fra gli alberi che lasciava poco spazio al cielo.
Le foreste della Serenissima
Queste foreste di abeti e pini furono per un millennio la fonte del legname della “Serenissima” per le sue navi, ma ancor più per le fondamenta delle sue costruzioni edilizie. Vale la pena ricordare i 4444 scalini scavati nella stretta gola di Valstagna in Valsugana lungo la quale, con un dislivello di 800 metri, veniva trasportato il legname dall’altipiano di Asiago al Brenta e da qui, con i famosi zatterai, a Venezia.
Analogamente in un paesino, Danta, all’inizio della val Fiscalina, i veneziani hanno fatto costruire, 500 anni fa, un dispositivo per il trasporto dei tronchi fino al Piave sul fondo valle e da questo con il sistema a zattere i tronchi arrivavano a Venezia. Anche qui il dislivello è di centinaia di metri.
Sul pianoro di Danta sorgeva un ruscello che si infilava in una rapidissima e stretta gola. All’inizio della gola hanno costruito una diga con lo scopo di formare un laghetto. Alla base della diga vi è una paratia mobile, apribile con un sistema d’argani. Subito a valle della diga venivano disposti i tronchi da trasportare. Lungo questo ripido percorso nei tratti più tortuosi si posizionavano dei boscaioli con il compito di governare il flusso dei tronchi. Ad un segnale convenuto veniva aperta la paratia alla base della diga, dalla quale usciva l’acqua con una violenza inusitata che investiva i tronchi trascinandoli a valle. Qualche tronco si incastrava tra i massi bloccando il flusso per cui i boscaioli dovevano intervenire per ripristinare il flusso stesso: era questo un momento che ha lasciato traccia nei piccoli cimiteri alpini.
Il Lago di Auronzo
Torniamo sulla strada in val d’Ansiei. In quel lungo tratto nessun segno d’uomo: una casa cantoniera e la segheria Bombassei e d’improvviso la parete in cemento della diga a formare il Lago di Auronzo, lago artificiale. Ricordo la sagoma del campanile nella trasparenza dell’acqua.
Un fatterello: all’inizio del paese tra la strada e il lago c’era una grande casa con una porta a vetri dipinti. Dalla bici di Bernardi partì un sasso pizzicato dal pneumatico, come un proiettile colpì il montante con un fracasso incredibile, fu un fuggi fuggi anche se non ci furono vetri rotti! Finalmente, dopo aver attraversato tutto il paese, arrivammo alla fontana perenne con la grande vasca lavatoio, il nostro riferimento per individuare la casa che ci avrebbe ospitati. Era questa proprio a ridosso della fontana che per tutto il tempo ci sarebbe servita per bere, lavarci, bagno compreso, e lavare qualche indumento.
Era il tramonto, a ovest la val Marzon e sul fondo le Tre Cime di Lavaredo, stagliate buie su un fondo di nubi scarlatte. Una vista non raccontabile. Ho vissuto nei molti anni di frequentazione delle Dolomiti momenti memorabili, notti stellate, albe tra le cime, temporali e bufere, tramonti, ma l’impressione di quel primo incontro non l’ho più rivissuta.
Quella sera ci dividemmo in due, forse in tre stanze. Nella mia stanza eravamo in quattro, e qui racconterò subito un fatterello. Avevamo appena spento la luce, venticinque candele forse, si cominciava a saltare sui letti, a fare scherzi. Da una fessura di un balcone sconnesso entrava un raggio di luna che mi batteva direttamente sul viso, perciò non vedevo nulla di quello che succedeva intorno. All’improvviso mi arrivò sugli occhi aperti una manciata di talco, non vedevo più nulla e gli occhi mi bruciavano. Passato il primo momento di ilarità qualcuno si è reso conto che poteva essere una cosa seria e si preoccupò di portarmi giù per le scale interne, poi per quelle esterne fino alla fontana dove immersi la testa nella grande vasca. Ho dovuto tenere gli occhi a mollo per un bel po’ prima di ripulirli del tutto, faceva un gran freddo. Del vitto di quella casa ricordo grandi minestroni, le verdure, in particolare il cavolo e il pane.
Le miniere
Un giorno andammo a vedere le miniere, erano ubicate sul versante nord del monte che sovrasta il paese, erano state abbandonate da poco tempo; al loro interno i binari a scartamento ridotto (ferrovia Decauville) e una piccola motrice con i carrelli. Alcune gallerie erano crollate; naturalmente era vietato entrarvi, e forse proprio per questo noi le visitammo. Molti anni dopo, 1968-1970, con la famiglia villeggiammo ad Auronzo. Ebbi modo di tornare a visitare le gallerie, sempre abusivamente e ritrovai anche la vecchia motrice presso l’uscita di una galleria che dava sul vuoto.
Di quel mio primo soggiorno alpino ricordo in particolare l’Ajarnola, le Tre Cime di Lavaredo, il rifugio Comici.
L’Ajarnola
L’Ajarnola incombe a nord di Auronzo, non è di nessun rilievo alpinistico, proprio per questo sconosciuta e selvaggia in particolare a quei tempi. Allo scopo di sgranchirci le gambe il giorno dopo abbiamo fatto un’escursione sulle sue pendici. Dopo neanche un’ora, all’uscita dal bosco, il sentiero terminava e cominciavano i “mughi”, pinastri a sviluppo orizzontale, massimo un metro di altezza, con bassi rami a formare un tappeto difficile da percorrere con continui aggiramenti. Usciti dai mughi entrammo nei ghiaioni pieni di grossi massi, poi sempre più piccoli e ripidi. Alcuni di noi si fermarono stanchi, non ricordo con chi ho proseguito. Arrivati ad una cinquantina di metri dalla vetta ci si presentò uno sperone verticale di roccia nuda con intagliata una stretta cengia ghiaiosa che solo l’incoscienza dei sedici anni mi fece percorrere in salita e peggio ancora a scendere. Nel 1969 sono tornato sull’Ajarnola con un boscaiolo del paese e ho avuto conferma che l’escursione del ’47 fu una follia. La discesa però fu meravigliosa, saltando di ramo in ramo sui mughi. Penso che i postumi di quei salti siano i dolori alle anche che mi accompagnano ormai da 25 anni.
Le Tre Cime di Lavaredo
Qualche giorno dopo aver recuperato l’uso delle gambe partimmo che era ancora buio da Auronzo verso Misurina. Noi eravamo al buio, le Tre Cime inondate dalla luce del sole nascente. Presagio della giornata. Sulla sinistra la lunga ed erta catena delle Marmarole. Sulla parete a strapiombo sulla valle, ad un centinaio di metri dal crinale, il rifugio Toscani, era poco più che una baita, piccola casetta da presepe calata dal cielo senza vie d’accesso. Sulla sinistra, sempre oltre la foresta di Somadida, si vedeva il grande catino del Sorapis.
Anche su questo ho delle storie: una sfida persa con un prete sommergibilista fiorentino dall’ironia sagace. Un giorno disse alle ragazze che accompagnava in quel soggiorno di approfittare dei giovani padovani, che forse non avrebbero più avuto la fortuna di incontri migliori. La sfida era la conquista del ghiacciaio, lui cinquantenne, noi poco più che ventenni. Riuscì a sfiancare tutti, me per ultimo. Questo però è successo nel ’55.
A Palus San Marco lasciammo le bici e salimmo verso le Tre Cime che incombevano di fronte. In questa valle secondaria c’erano ancora cospicui residui bellici della guerra ‘15-‘18: trincee, casematte, gallerie rifugio, elmetti, gavette, stoviglie, scatolame, bossoli, schegge, parti di armi ed infine un cannone disarcionato dal suo carro di almeno quattro metri. Incomprensibile come abbiano potuto portarlo in quel posto impervio. Finalmente il rifugio Auronzo, breve sosta e via per Forcella Lavaredo superata la quale a destra gli spalti del Paterno, una ‘groviera’ di gallerie e postazioni di cannoni e postazioni di difesa e sulla sinistra l’immensa parete nord della grande e vicinissime la piccola e la piccolissima, tutte verticali, palestre classiche dove si sono espressi tutti i grandi dell’alpinismo fra i quali Comici e Maestri.
Il rifugio Comici
Al di là della brulla valle dei ghiaioni il rifugio Locatelli e da questo la via per il Comici, che ogni escursionista vuole annotare nel suo carnet per la sua posizione immersa in una foresta non di alberi ma di vette, pinnacoli, torri, guglie. Qui è importante pernottare per poter vedere spuntare all’alba la prima luce, poi i raggi del sole come frecce che subito scompaiono per ricomparire più in là, poi il sole che balza da una vetta all’altra in una sequenza imprevedibile.
Ricordo solo questi mozziconi, che mi sono rimasti insieme ai dolori ai muscoli del giorno dopo. Le scale di casa si potevano scendere solo a ritroso. Del ritorno a casa non è rimasta traccia nel mio archivio cerebrale. In quasi tutti i viaggi, e non solo in montagna, il ritorno è raramente ricordato.