È l’8 dicembre, martedi. In famiglia questo giorno è sempre stato festa grande. È il giorno del patrono, o meglio della patrona, l’Immacolata. È una cosa insolita. La patrona era festeggiata con enfasi e processione per le contrade della zona del Portello, borgo di provenienza della nonna Franca. A ogni cambio di casa in zone diverse della città, come ora al Duomo, ci portavamo appresso la nostra festa coinvolgendo le famiglie dei figli. Anche quest’anno cerchiamo di non perdere la consuetudine nonostante il coronavirus. Stasera verrà la Rita, a nome di tutti e porterà il pasticcio per la cena e magari faremo un incontro in videochiamata con un abbraccio virtuale.
Giorni fa ha nevicato, fatto inconsueto in città di questi anni di surriscaldamento del clima. Nevicava a grandi falde che subito si dissolvevano. Sono stati sufficienti quei pochi fiocchi per scoperchiare la memoria.
Era un inverno di guerra in campagna, ero sfollato dei miei nonni. Quel mattino di gennaio sull’aia c’erano già una ventina di centimetri di neve e l’aria era tutto uno sfarfallio. E il pollaio era deserto, le galline, le faraone erano lassù nel gabbiotto che raggiungevamo con la scaletta a pioli, mentre le oche, le anatre, i tacchini all’interno dello stallotto. Gli unici in movimento erano i passeri e qualche merlo in cerca di cibo scomparso sotto il manto di neve.
Per me era l’occasione d’oro: la caccia. Presi la cesta di vimini intrecciato a piccole fessure che si utilizzava per tenere uniti i pulcini e la predisposi trappola. La piazzai sotto il “Barco” (la barchessa di deposito attrezzi agricoli) con sotto chicchi di grano per esca, una lunga corda nascosta nella neve per far cadere la cesta sulle prede da lontano e attesi. Pochi minuti e uno stormo di passeri si è avvicinato alla cesta, titubante, ma la fame li spinse all’interno della cesta. Uno strattone e la cesta imprigionò i malcapitati. La nonna uscì e volle fare da sola l’operazione di recupero, pulitura e cottura del lauto pranzo.
Continuava a nevicare. Me ne andai dietro il barco dove c’era il letamaio e il cumulo di fascine per alimentare il fuoco del camino. Subito dietro cominciava il vigneto e quindi l’incanto. Mi inoltrai tra due filari di vigne sprofondando nella neve, pochi passi e mi fermai ad ascoltare il silenzio, ossimoro, solo un fruscio delle falde di neve che si scontravano o si appoggiavano sui rametti delle vigne, in quel periodo dell’anno le vigne non erano ancora potate per cui era tutto un groviglio di tralci più o meno grossi per cui la neve trovava facile appoggio riducendo ulteriormente la visibilità. O era la neve stessa che impattandosi per il suo peso provocava fruscio. Non c’era vento. Ogni tanto qualche grumo di neve si staccava dai rametti e questi per elasticità si ritraevano rompendo il silenzio. Tutto intorno la visuale era limitata dalla nevicata per cui tutto era fantasmagorico. Era un caleidoscopio di bianco e grigio. Sono ricordi che non si possono perdere.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!” Libro secondo, numero 188