Dalla stampa e televisione recepisco il messaggio che le restrizioni poste al diffondersi del contagio non sono sufficienti, o meglio non sono attuabili né controllabili perché valgono per tutto il territorio. La dimostrazione di questo l’abbiamo da domenica con l’uscita dalla zona rossa e il passaggio a zona arancione di alcune regioni. È stato recepito come un liberi tutti e non come il passaggio a un regime di regole meno restrittive. A conferma di ciò l’accorato richiamo di Beppe Severgnini sul Corriere della Sera a usare buon senso e responsabilità personale.
È un segno di resa alle regole per rivolgersi al buon cuore della gente. Non vorrei che questo fenomeno fosse il preludio di un provvedimento drastico che cancella regolette, deroghe, concessioni di questi mesi e si ripristini un coprifuoco di guerra come a marzo scorso, mettendo sulle strade l’esercito. Sarebbe la sconfitta degli “italiani brava gente”.
Dal libro “Nonno parlami di te a pagina 49 rispondo alla domanda: “Cosa ti piaceva di più fare nel tempo libero quando eri piccolo?”.
Negli anni delle elementari il pomeriggio era dedicato ai compiti per casa ai quali dedicavo poco tempo perché il più delle volte li facevo già a scuola in attesa di uscire. Poi a quella serie di lavoretti di casa che già ho descritto: raccogliere l’erba per i conigli, l’acqua per l’orto e altro. Per lunghi periodi ho fatto anche il garzone nel negozio del pizzicagnolo del quartiere. Nel poco tempo che restava si giocava con le biglie a buchette, a “mago”: è necessario spiegare questo gioco. Si chiama mago un mezzo mattone sopra il quale mettevamo delle figurine, oppure i citrù, sono i tappi di metallo delle aranciate bene appiattite o anche biglie. Quindi da una certa distanza, una decina di metri, lanciavamo una piccola piastra di pietra con l’intento di colpire il mago e rovesciare la posta in gioco. Vinceva chi con la propria piastra toccava uno o più degli oggetti in palio. Si poteva giocare in un numero indefinito di giocatori.
Altro gioco era il ping pong: era costituito da un pezzo di legno, di solito ricavato da un manico di scopa, lungo 50-60 cm e un altro lungo 15 cm con gli estremi appuntiti. Il gioco consisteva nell’arrivare alla meta con il minor numero di stazione di lancio. Cioè: nella prima stazione si colpiva col bastone il ping, quello appuntito, mandandolo il più lontano possibile. Nella seconda stazione non si toccava più il ping con le mani bensì col bastone pong. Si doveva colpire con il pong una delle punte del ping, questo si alzava a mezz’aria e con il pong lo si colpiva al volo mandandolo lontano e così via alternandosi con i contendenti. Era entusiasmante, facevamo centinaia di metri. Naturalmente l’avversario poteva contrastare il tuo avanzamento se riusciva a intercettare il tuo ping con il suo pong in aria respingendo indietro. Si facevano delle cose incredibili a inseguire quel legnetto roteante e coglierlo prima che toccasse terra.
Spesso ci perdevamo per i campi limitrofi magari a rubare qualche frutto dagli alberi dei vicini che di solito erano acerbi. Lungo i fossati a catturare girini o più difficilmente qualche rana, a stanare i grilli, a cercare lucamara, un arbusto legnoso dal sapore dolce/amaro di liquirizia. Oppure solo a correre a prendersi, a “tegna” nelle varie forme: tegna alta, tegna cuccetta, tegna ferma eccetera. E ancora il gioco della cavallina: 5 ragazzi piegati ad angolo e accostati a formare la cavallina, attrezzo da ginnastica, sulla quale saltavano tanti ragazzi quanti ce ne potevano stare. Vinceva la squadra che resisteva di più, gli uni a non cadere dalla cavallina, gli altri a non cedere sotto il peso di chi stava sopra. Alla domenica in patronato a calciare palloni di stracci ben legati fino a sfiancarsi dalla fatica.
Quando frequentavo la scuola di avviamento al lavoro di via Brondolo in zona Duomo, era consuetudine, al mattino, fermarsi a giocare a calcio una decina di minuti sull’area dove oggi sorge il grattacielo in Piazza Insurrezione già Piazza Spalato. La palla era di stracci legati con lo spago. Alla fine nascondevamo la palla sotto un cespuglio selvatico cresciuto a ridosso del muro della chiesa di Santa Lucia e l’oratorio. Altro luogo per le partite di calcio, magari prima di tornare a casa per il pranzo, era Piazza Castello. Il Castello allora era adibito a carcere. La porta del campo era situata sul fronte della palazzina adiacente il Castello. Il gioco era singolare in quanto si giocava con due squadre contrapposte ma con una sola porta per segnare il gol! Quindi il portiere era neutrale. Le liti sulla neutralità si sprecavano. Naturalmente forte era il disappunto degli inquilini della palazzina per l’uso a porta di calcio del fronte della loro casa.