Covid: non sono uscite le nuove restrizioni da parte del governo. Continuano le contraddizioni tra idee diverse e spesso contraddittorie. Infatti è difficile contrapporre cure certe contro il virus che ha il suo punto di forza sull’invisibilità e sulla intracciabilità della sua presenza per la mancata realizzazione del sistema. Appena abbozzato, il sistema è stato spazzato via dalla violenza del propagarsi del virus stesso, eravamo in altre faccende affaccendati come i banchi scolastici a rotelle e il liberi tutti alla discoteca. Lo so! Mi sto ripetendo, però non sono il solo, la stampa e l’informazione tutta è un continuo ricopiarsi giorno per giorno.
Dal libro “Nonno, parlami di te” a pagina 17 rispondo alle domande che identificano le origini di mia mamma Emma. “Per favore, scrivi dove e quando è nata la tua mamma, come si chiamava? E come la descriveresti? Com’era, dove lavorava…?”.
Si chiamava Maretto Luigia, è sempre stata chiamata Emma, non so perché. È nata a Noventa Padovana il 21 giugno 1901, è morta il 15 marzo 1984. La sua famiglia ha sempre vissuto, per quanto io sappia, a Noventa, dove tutti i parenti del nonno e della Beppa, la nonna, facevano i contadini. Il mio nonno Eugenio detto “il Moro Mareto” era affittuario dei Marchesi Manzoni che abitavano sempre in paese in una magnifica villa circondata da giardini e un parco di alti alberi, recintata da mura e cancellata in ferro battuto. Ricordo la grande barchessa con sotto le stalle, le cantine, il deposito degli attrezzi agricoli e, sopra, gli immensi granai dove i contadini delle terre dei Marchesi portavano grano e granoturco come quota d’affitto della terra.
Ricordo quando con la zia Giulia a Natale portavamo le “onoranze”, così si chiamavano i tributi in natura che, per tradizione risalente al medioevo, i contadini delle loro terre erano tenuti a dare. Si trattava di capponi, anatre, un’oca, un tacchino “el pito”, del radicchio bianco, era questo una prelibatezza che aveva una lunga preparazione: era un tipo particolare di radicchio, veniva raccolto a ottobre, novembre, dipendeva dal freddo stagionale, con le radici e reimpiantato in cassette piene di sabbia e ricoperto di paglia. Veniva portato all’interno della stalla al calduccio. Quando a Natale veniva raccolto era bianco e croccante. Noi ci tenevamo le foglie esterne e portavamo i cuoricini ai “padroni” i Marchesi.
Solo alla fine della guerra, nel 1946, il nonno con lo zio Nino riuscirono a comprare gli 11 campi padovani con la casa colonica completa di stalla, granai, cantina e, separata, la barchessa per il ricovero dei carri, la seminatrice, l’erpice, l’aratro, la porcilaia, il pollaio e sopra un gran fienile. Il terreno dal lato sud confinava con l’argine del Piovego, il canale che collega a Padova con il Brenta e quindi Venezia.
La mia mamma era bella, ho una vecchia foto, una sola, che lo testimonia. Io non la ricordo così, con la fisionomia di quella foto, ma come le molte foto che ho di lei di dopo la guerra. Ho un vago ricordo che lavorasse nella fabbrica dove lavorava anche il nonno Gino. Evidentemente non tutti i figli di mio nonno Eugenio potevano vivere con i proventi dei campi. Erano cinque sorelle e lo zio Nino.