Covid. Conseguentemente alla scoperta della inattendibilità dei dati pandemici presentati da alcune regioni, notoriamente disattente all’ordine, si sono aggiunte ulteriori difficoltà nella gestione dell’emergenza in corso. Commento: Quanta nostalgia per quella frase, il titolo di un libro, “L’Austria è un paese ordinato”, penso si riferisse al tempo di Cecco Beppe l’imperatore!
Oggi mi rintano nel libro “Nonno, parlami di te”: a pagina 45 rispondo alla domanda: “Racconta una storia interessante o avventurosa della tua giovinezza”.
Comincio con due piccole premesse: 1) Interessante: ogni viaggio o storia dobbiamo intenderli interessanti, lo saranno più o meno, ma ognuna lascia un segno nel bagaglio della vita. Avventurosa: non sempre le storie o i viaggi sono avventurosi. Se lo fossero la vita sarebbe davvero faticosa. 2) della tua giovinezza: dirò della mia giovinezza, ma non sono le più significative della mia vita.
La storia interessante. Era l’autunno del 1955. A giugno mi ero appena diplomato. L’azienda in cui lavoravo stava iniziando un nuovo tipo di lavorazione con l’inserimento di una tecnologia, i trattamenti termici, poco conosciuta all’interno della stessa azienda. Aveva bisogno di acquisire informazioni, competenze che non poteva sviluppare all’interno. Attraverso i suoi canali informativi venne a conoscenza che a Francoforte sul Meno in Germania, presso una importante azienda chimica, si sarebbe tenuto un corso informativo sull’argomento. Decise di inviare me con lo scopo che successivamente avrei avviato il nuovo reparto delle lavorazioni pertinenti. Mi sentivo intimorito ma non per questo ho pensato di non aderire, sono queste occasioni che la vita concede, guai a non raccoglierle. Già il viaggio fu tutta una novità, era la prima volta che andavo all’estero, non sapevo la lingua, ero solo. L’attraversamento della Svizzera in treno mi confermò come fosse il paese dell’ordine. La Germania non era ancora uscita dai postumi della guerra, in particolare a Francoforte la Cattedrale era ancora disastrata, i segni erano evidenti. Una curiosità: ho visto una strada in centro lastricata di dischi di albero di 30 cm di diametro.
Il corso di studio a cui partecipavo era tenuto all’interno di una fabbrica di prodotti chimici, l’argomento trattato era alla mia portata così che sono tornato preparato al nuovo incarico. Di quella azienda mi ha colpito la laboriosità del personale, la nostra presenza non li distraeva, l’ordine delle cose. L’ultimo giorno ci hanno fatto fare una piccola crociera sul Reno di cui il Meno è tributario, il pranzo in un fantastico castello medievale in riva al fiume. Ci hanno lasciato a Charleroy per il pernottamento in un vecchio albergo, su un letto sprofondato in un materasso e piumone di piume, impossibile da dormirci sopra. Da qui in treno per il ritorno di cui come al solito non ricordo niente.
La storia avventurosa: avevo fatto ormai una buona esperienza di montagna a livello di lunghe escursioni su sentieri impervi e in quota e una certa esperienza di maltempo, temporali e conoscenza dei percorsi. Avevo fatto anche molte ferrate. Mai arrampicate! Eravamo in ferie a Tomadico nella zona delle Pale di San Martino. Io e Sven (Luciano) con azzardo decidemmo di interpellare una guida alpina, forse si chiamava Franceschi, se riteneva fossimo in grado di affrontare una salita a sua scelta. Chiacchierammo un po’ e alla fine ci disse: domani mattina alle 6 al tal posto che faremo una via dello spallone della Pala. La notte passò più o meno in bianco. Puntuali all’appuntamento, ci controlla l’equipaggiamento e ci incamminiamo di buon passo ma ottimo per noi. Ai piedi della Pala, alzando gli occhi, una parete da capogiro. Ci lega, Luciano secondo, io a seguire. Si parte, io non vedevo appigli, cenge, solo roccia liscia perpendicolare. Lui, così lo chiamerò, parte e Luciano lo segue, si comincia a salire e per incanto comparvero le fessure, le cenge, appoggi, chiodi fissi per assicurarsi a ogni passo. Anche la verticalità non era quella percepita. Si procedeva spediti. Saremo stati a metà percorso e Lui si ferma. Senza parlare ci mette in sicurezza, si stacca da noi e procedendo di lato per una decina di metri si piazza in fianco a una crosta di roccia appiccicata alla parete, trae dalla cintola una specie di leva, la pianta su una fessura alla base della crosta e fa leva finché questa si stacca volando, anzi balzando sulla parete inclinata, quella che a me sembrava verticale, con un fragore ampliato dal silenzio e dagli echi. Lui tornò e ci disse solo: era da un po’ di tempo che dovevo farlo. Capii quanto gli fossero familiari quelle rocce.
Ci rimettemmo in cordata continuando a salire, a me pareva più speditamente. Arrivati alla fine della parete uscimmo su un pianoro accidentato e subito al rifugio. Lo invitammo a mangiare con noi, disse che andava di fretta, mangiò in piedi un panino di formaggio cotto e andò via. Ripensando all’avventura appena vissuta, l’attenzione era tutta a cercare gli appoggi, le tacche, gli appigli, a rispettare la regole di sicurezza. Però un angolo della mia mente gustava quell’immersione nel cielo. Mi sentivo sdoppiato, da una parte l’io affaticato dallo sforzo, dall’altra l’io che volava leggero con i refoli del vento che si rincorrevano tra gli anfratti. Volevo concludere mettendo in evidenza che la montagna va affrontata con umiltà. (la montagna è una metafora della vita).
Avrò avuto 60 anni, mi sentivo esperto ormai di montagna e di ferrata. Quando decisi di fare la “Costantini” mi preparai come da routine. Pochi minuti di sentiero e siamo all’attacco, un gruppo appena incontrato aveva rinunciato, si presenta un canalone di roccia liscia attraversato da una fune di acciaio, una ventina di metri, ancorata alla roccia, mi avvio, attacco il moschettone e cerco qualche gradino per i piedi, ma erano come francobolli. Quei 20 metri furono uno schiaffo al mio orgoglio, ebbi paura, al termine mi sedetti a respirare e a meditare. Erri De Luca ha ben descritto le sue impressioni su quei 20 metri in un suo libro.