Covid. Sorrido. Lo spiraglio di luce sembra più vicino. Non voglio invece parlare del clima sociale che c’è tra noi. Lo farò. Faccio invece alcune riflessioni su fatti analoghi alla pandemia che stiamo vivendo e che ci aiutano a viverla. Il titolo: quando le sputacchiere erano una istituzione! Tento di spiegarmi: per gli incendi siamo dotati di estintori di vario tipo, usiamo materiale ignifughi, il materiale infiammabili relegato in zone isolate. Le larghe fasce che dividono i nostri boschi sono chiamate tagliafuoco. Perché tutti questi costosi accorgimenti non provocano il nostro rifiuto, non fanno nascere i no fuocus? Sono una normale evoluzione del buon senso!
E ancora nessuno si stupisce che le nostre vie di comunicazione siano dotate di barriere di protezione e antirumore? Sono la naturale evoluzione del buon senso! Ci ricordiamo con quanta fatica abbiamo accettato l’uso del casco e delle cinghie di sicurezza, anche allora c’erano i no casc e i no cingh, attualmente, salvo certe aree mentalmente depresse, l’uso di questi dispositivi sono accettati. Sembravano fardelli inaccettabili. Ha prevalso il buon senso!
Ora parliamo dei vaccini. Dagli anni trenta di mia memoria quando il livello culturale era certamente più basso i vaccini non erano oggetto di dubbio. La presenza dei vaccini ha fatto scomparire molte malattie tanto da farle scomparire dalla memoria delle generazioni successive fino al punto da chiedersi: a cosa servono i vaccini? Tanta inconsapevolezza ci riportò in circolo il morbillo. Su questo “non ricordo” comunitario i no Vax ci sguazzarono.
Ora mi richiamo al titolo. La tubercolosi. Ormai in pochissimi ricordano le sputacchiere negli edifici pubblici, negli ospedali in primis e nei negozi, erano queste delle ciotole di metallo di 30 cm di diametro riempite di segatura o di sabbia, dove tutti si sentivano in dovere di sputare. Questi contenitori sono diventati inutili con la penicillina. Il buon senso così ci diceva doveva essere! In proposito ho due testimonianze, la famiglia di una mia zia fu distrutta dal morbo, due figli e lei stessa, e due figli ammalati. Ho scritto altrove i dettagli.
Negli anni 45/50 facevo parte di un coro di canti di montagna, più volte fummo chiamati a intrattenere i pazienti nell’allora sanatorio di via Gattamelata e nel tubercolosario dell’Ospedale Civile lontano da tutti gli altri edifici ospedalieri sulla montagnola sopra un bastione delle mura di cinta della città, ora sede di neurologia. In quell’occasione andavamo con il cuore in gola per il timore di contagiarci e ancor più quando alla fine ci offrivano la cioccolata calda e i biscotti, avremmo rifiutato di tutto cuore, non potevamo visto che i medici si erano premurati di farci sentire sicuri. Anch’io poi fui vittima della difterite, non si era ancora raggiunta la protezione di gregge. E ancora la poliomelite mostrava la sua presenza in patronato tra noi fanciulli, alcuni erano sciancati. Tutto ciò premesso per dirci che diverse pandemie l’uomo ha vissuto, anche recenti, per superare le quali c’è voluta molta resilienza e accettazione di limiti alla libertà ed economici.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!” Libro secondo, numero 186