È l’alba. Ci stiamo trasferendo all’aeroporto di Siem Reap-Angkor, destinazione Laos. La modestia dell’aereo, dell’aeroporto intermedio che sembrava un prato, alcuni passeggeri coreani particolarmente invadenti che sciamavano sul prato per fotografarsi vicino ad un’altra aerea in sosta, davano la sensazione di essere in gita scolastica. Ancora un tratto di volo e siamo a Vientiane, l’aeroporto sembrava vuoto, piantonato qua e là da militari dalle divise di regime di taglio rigido, grandi berretti con ampia visiera, decorazioni al petto. Anche i funzionari erano vestiti dignitosamente ma con mestizia, il sorriso era sconosciuto.
All’uscita siamo ricevuti dalla nostra guida, un omino strano, parla francese. Ci accompagna a due piccoli pulmini dai finestrini ad oblò, oscurati, per cui l’esterno sembrava un tramonto piovoso. In quest’atmosfera un po’ mesta prendiamo il viale verso la città. Sorpresi, chiediamo perché non ci sia nessuno, pochissime auto, qualche camion sgangherato residuato russo. Non ricordo la risposta. Forse per la guida la situazione era normale. Grandi lavori in atto con pochi operatori, in città pochi negozi. Anche l’albergo, che doveva essere di alto livello, era modesto, stile russo anni ’70. Il personale tutt’altro che affaccendato ad assistere i clienti.
Nel pomeriggio un giro in città, che lungo il Mekong, descritto dalle guide come caratteristico, è mortificante per la sporcizia. Una sequela di ristorantini dove lo sporco e la modestia dei cibi era evidente. Siamo stati particolarmente colpiti da una “pietanza”: due giovani ragazze sedute a un tavolino di un bar/ristorante avevano ognuna, su un portauovo, un uovo semisodo dal quale uscivano le zampette di un pulcino, sconvolgente. Avevo già visto in India uova sode dall’interno nero dovuto al fatto che venivano conservate per mesi in buche nel terreno e successivamente cotte, sbucciate e vendute come leccornie. Paese che vai usanze che trovi.
Questo è stato un anticipo di quello che avremmo scoperto nei giorni a seguire. Qualche appunto sulla città, Vientiame: è la sola grande città laotiana, con i suoi 300 mila abitanti compresi i sobborghi. Anch’essa è pervasa del vecchio stile coloniale francese. Punti significativi: l’elegante museo della storia, lo stupa nero dall’aria misteriosa, l’austero palazzo presidenziale, la riva del Mekong e il mercato coperto, forse il punto più vivace.
29 gennaio 2007. Vientiane – Xienkhang. Sono 300 km di strada montagna, fondo buono, ma stretta, tutta curve. Sembra il “costo” per Asiago, solo che non finisce mai. La prima tappa in un piccolo villaggio dove era in corso il mercato. Pesce d’acqua dolce di molte dimensioni e forme anche insolite, carne secca appesa a corde insieme a roditori squartati. Bancarelle dove cucinavano in vari modi carne, pesci, verdure. La gente consumava il cibo posto su foglie, camminando. Odori nauseabondi, mosche ovunque. Un quartiere era riservato agli insetti conservati in cesti chiusi: grilli, cavallette, scarafaggi d’acqua, coleotteri, che venivano cucinati e venduti in coni di carta di giornale come fossero pop-corn.
Abbiamo visitato un’abitazione costruita su palafitta non tanto per rischio inondazione, ma per isolarla dagli animali con accorgimenti sui pali di supporto. Dove le case erano sul piano campagna il pavimento era in terra battuta. Nella zona cottura una buca conteneva il fuoco, sul tetto un foro per far uscire il fumo. Per dormire, tutti insieme, c’è un pianale di legno, in un angolo qualche pentola affumicata e alcuni piatti. Povertà. In un’altra casa, un’unica stanza 6 x 6 m, i genitori di 36 e 32 anni e nove figli da 1 a 13 anni nonostante la miseria erano ben nutriti.
Questa zona è abitata da tribù Hmong e Khmu, gente di montagna di provenienza cinese, che vivono in un tempo remoto con difficoltà a integrarsi con i laotiani. Gli uomini sono organizzati come una guardia civile, armati di kalashnikov, e sono parzialmente stipendiati per il controllo del territorio, lavorano nei campi e il fucile accompagna la zappa. I villaggi si susseguono, tutti uguali, di poche case. Le capanne, coperte di paglia, con le pareti di corteccia d’albero di circa 25 metri quadrati, sono normalmente sopraelevate di una ventina di centimetri.
Abbiamo incontrato più volte jeep targate ONU, adibite dalla fine della guerra del Vietnam allo sminamento del territorio dai residuati bellici lasciati dai vari invasori succedutisi nel tempo. Siamo così arrivati alla Piana delle Giare, alcune sono monumentali, alte fino a 20 metri, scavate e modellate in blocchi di roccia. Non si conoscono le origini e lo scopo non ne è conosciuto. Sono sparse su migliaia di ettari.
Su questo territorio laotiano durante la guerra vietnamita passava il sentiero Ho Chi Minh che riforniva la guerriglia nel Vietnam del Sud, perciò era battuto da continui bombardamenti americani, ancora oggi sono visibili innumerevoli buche di bomba. Il Laos era formalmente neutrale, in realtà parteggiava con il Vietnam del Nord. Dovevamo seguire sentieri segnalati per evitare mine e bombe inesplose.
30 gennaio. Ancora un sopralluogo al sito 2 delle Giare su una collina e poi al sito 3 sulla risaia asciutta. Bufale al pascolo. In un recinto un bufalo maschio da riproduzione maestoso, fiero. Mi ricordava il toro da monta della mia infanzia in campagna. Una curiosità: era la stagione secca, il torrente si superava al guado. Di lato c’era un ponte pedonale alto 3 metri di canne di bambù legate tra loro, assai rustico e instabile, il piano di transito era di pioli di bambù distanziati tra loro, un’avventura. Era utilizzato nei momenti di piena. A Phonsavan il solito mercato, insetti fritti, di molte varietà e trattati con condimenti, leccornie, venduti anche su spezzoni di bambù svuotati, verdure e fiori di banano. Visitato il villaggio Knong, sulla piazza, oltre al mercato, una fontana e gabinetti comunitari!
Finalmente si raggiunge Luang Prabang, in periferia l’albergo Santi, ottimo, però quattro di noi sono dirottati nella dependance in centro città. Soliti disguidi asiatici!
31 gennaio a Luang Prabang. Il nome di questa località l’ho memorizzato al tempo della guerra del Vietnam. In particolare per le riprese fotografiche dei cacciabombardieri americani che con vertiginose picchiate colpivano i mezzi fluviali sul Mekong e il suo affluente Nam Khan, con il ripido sperone roccioso alto 700 m che supporta la città ed è qui punto di confluenza. Non a caso l’Unesco ha dichiarato questo luogo patrimonio dell’umanità anche per la presenza di 30 complessi monastici con i loro preziosi gioielli architettonici e storico-religiosi. Sul culmine della collina sacra, Phu-si, il monastero Vat Chom Si, un panorama incantevole, specialmente al tramonto.
1 febbraio. Di questa escursione ho già detto in un altro scritto con dettagli molto interessanti relativi alla vita della gente del fiume Mekong e dei villaggi rivieraschi. Sono soggetti alle diversità dello stato delle acque nelle varie stagioni. Nel periodo secco l’ampio greto del fiume è cosparso di ciclopici massi che si coprono di alghe sul bagnasciuga, che vengono raccolte e alimentano un notevole commercio. Il lavoro di raccolta ed essicamento è molto elaborato. Sulla rena asciutta sulle rive del fiume vengono esposti una miriade di vassoi di vimini coperti di alghe mescolati a pezzetti di pomodoro ed erbe odorose. Nella fase di essicamento vengono umidificati con l’acqua del fiume a ché il processo avvenga con gradualità. È alto artigianato.
Nota: il Mekong arriva in Laos dopo aver percorso migliaia di chilometri in Cina, conseguentemente le sue acque sono tutt’altro che le “chiare fresche docli acque” di poetica memoria. Le alghe vengono immesse sui mercati come alimento e leccornia da passeggio. Le ho assaggiate, sono buone. Nel periodo dei Monsoni il livello sale anche di 20 metri invadendo e facendo rifiorire la campagna.
Torno a dire dell’escursione. La barca è lunga una decina di metri, è stretta, due sedili affiancati, il tetto è coperto da un telo sostenuto da archetti di ferro a proteggere dal sole implacabile. La moglie a poppa sbriga faccende domestiche e cucina, il marito a prua conduce la barca attento a scansare i macigni affioranti. La guida è un professore di francese, che fa anche la guida turistica oltre che il sindaco nel suo villaggio in riva al fiume che ci farà visitare. È appunto a casa sua che una sua figlia da marito, questo stato è reso evidente dal modo di pettinarsi, ci prepara sul momento le alghe fritte. Come ho detto erano buone ma mangiate con i denti sospesi considerato in quali acque sono state raccolte.
Visitiamo una distilleria di un liquore fortissimo, imbevibile. Artigianale ed arcaica. Dinanzi a molte case le tessitrici con gli arcolai a pedale. In un’ansa del fiume, creata da un promontorio roccioso alla cui base, sul fiume, si aprono le sacre grotte di Pak Ou coperte da migliaia di statue di Buddha di ogni dimensione. Facciamo sosta per il pranzo in una quasi osteria su in alto sull’argine, per raggiungerla si percorrono dei gradoni di sabbia, due passi avanti uno indietro, consumiamo pesce fritto del Mekong e una birra e le ultime noci che mi ero portato dall’Italia! Nel ritorno ancora una sosta in un villaggio per visitare un monastero dedito alla meditazione, noi diremo di clausura. E dei laboratori artigianali per la fabbricazione di carta ricavata dalla corteccia d’albero. In serata visitiamo un mercatino improvvisato sull’asfalto di una strada dove ho acquistato una vecchia bilancia da oppio, un bracciale di alluminio ricavato da un residuato di guerra dagli abitanti di una delle tante tribù sperse nella foresta montana, e una casetta laotiana in legno.
2 febbraio. Una rapida visita del museo nazionale e del Wat Mai. Quindi un lungo giro nei dintorni di Luang Prabang dove si vive una vita ancestrale. Poi il parco naturale con la cascata di Kongsi e un villaggio Hmong, guerrieri coltivatori di papavero da oppio.
3 febbraio. Il lungo ritorno verso l’Italia.
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Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!” Libro secondo, numero 184