Mi è venuta in mente una frase inconsueta che ho sentito raramente e solo molte ma molte decine di anni fa. Perciò vorrei descrivere il contesto in cui è nata. Il tempo: forse 1941-42. Il luogo: abitavamo in via Giambellino pittore, una laterale destra di via Venezia, in direzione di Ponte di Brenta, a un centinaio di metri dalla Stanga, una stradina chiusa con una decina di case unifamiliari con i loro piccoli portici. Povera gente. Dal lato opposto dipartiva via Bonaventura da Peraga, una stradicciola di campagna, quasi sempre invasa d’acqua, che si perdeva tra i campi verso Mortise. Sul lato destro della stessa una grande casa colonica con stalla, con certi buoi da lavoro enormi, fienili e pagliai.
Aneddoto: i coloni avevano un ragazzo poco più grande di me per età che diventò prete e condusse per molti anni la parrocchia del vicino paese di San Gregorio, era fra l’altro esperto nella guarigione degli indemoniati.
Sul lato sinistro una lunga fila di casette, così le chiamavano perché a un piano e basse, appoggiate le une alle altre, abitate da gente davvero povera. Alle spalle di queste la “villa“, una grande casa, similveneta, mezza diroccata abitata da famiglie che se la erano divisa in qualche modo. Pochi anni dopo la guerra tutto questo sparì per lasciare posto al complesso “Biri”.
Detto del contesto passo a chiarire il detto di popolo: “Non posso venire con te perché stasera ho il marchese”.
In via Giambellino eravamo una decina di ragazzi di 10-12 anni e un paio sui 17-18. Gli uni erano i pulcinotti sgraziati che avevano la pretesa di parlare di cose dei grandi, i galletti. Nella prima delle casette abitava una giovane donna, sciancata, che aveva una figlia di 13-14 anni, davvero bella con tutte le sue grazie al posto giusto e piuttosto abbondanti. I galletti le starnazzavano attorno e noi pulcinotti facevamo altrettanto senza sapere perché. Lo facevano i grandi! Un giorno eravamo, galletti e pulcinotti, sul parapetto del ponticello che immetteva su via Venezia, che facevamo la “ruota” alla ragazzina ben “costituita“, con frizzi e lazzi, sottintesi e risate. A un certo punto esce di casa, al di là della strada, la mamma della ragazzina che si mette a gridare rimproveri nei nostri confronti, fra questi una frase: “Lasciatela stare che ghe se vegnù el marchese”.
I più grandi se ne andarono alla chetichella, la ragazzina tornò a casa piangendo e noi ragazzini che non capivamo di cosa si parlasse siamo tornati ai nostri giochi. Tra noi ragazzini il discorso non si presentò più. Solo dopo anni, non so dire quanti, se in campagna o in fabbrica, è riapparsa la frase: “ea ga el marchese”, per dire di una donna che ha il suo ciclo mensile. Quando ho cercato di approfondire, un ragazzo più anziano, ritenuto esperto di vita, mi disse che così si dice, nell’ambito della prostituzione, quando una del mestiere ha il ciclo e si giustifica col richiedente la prestazione dicendo di avere un impegno con un marchese. Poi nel tempo non mi è più capitato di sentirlo dire. Inoltre non so perché a distanza di tanti anni mi sia venuta in mente questa frase.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!” Libro secondo, nr. 170