Nel dormiveglia dell’alba, in un miscuglio di pensieri, mi sono immaginato che la professoressa che dialogava con mia figlia Rita le chiedesse la ragione per la quale avesse scelto di sviluppare per la sua tesi di laurea l’argomento Zedapa e la sua crisi.
“Per capire le ragioni, tutte le ragioni, e non solo quelle prodotte da mio padre, di una involuzione che oggi non troverebbe riscontro. In questa sala ci sono alcuni attori, altri sono presenti nelle interviste, degli avvenimenti sviluppatisi tra gli anni ’60 e il 1978, anno della chiusura. Mio padre rappresentava il lavoro dal punto di vista dell’azienda, data la sua posizione dirigenziale di tecnico. Si era creato sul campo partendo da apprendista fino a ricoprire il ruolo dirigenziale, completandosi con studi serali, già dai primi anni ’50. Con tale esperienza conosceva la manualità e tutte le attività svolte dal personale perché vissute in prima persona. L’altro punto di vista era rappresentato dagli operai alcuni dei quali, forse i più significativi di quel tempo, sono qui presenti e hanno contribuito alla stesura della tesi con le loro testimonianze”.
Come per incanto il teatro “Ruzzante” si trasforma da aula universitaria a luogo di dibattito. Da questo momento scrivo in prima persona perché chiamato a esporre le motivazioni del mio comportamento per cercare, inoltre, di sciogliere i dubbi sulla bontà del mio operare che sempre mi hanno accompagnato dal sorgere dei contrasti in seno all’azienda.
Il lavoro e il merito
Innanzitutto vorrei definire la funzione “lavoro”, il suo scopo relativamente alla persona e quindi alla società. Il lavoro è il tramite attraverso il quale la per-sona realizza un reddito che le consente di avere una vita dignitosa per sé e per la sua famiglia, perciò per la società civile. Il lavoro dovrà essere svolto al meglio da ognuno nelle mansioni di sua competenza. Ne consegue che al lavoratore debba essere riconosciuto un “merito” in funzione di come svolge i propri compiti. Non voglio dilungarmi in elucubrazioni da filosofia sociale, non sono certamente preparato, ma fermarmi alla asserzione: “Il merito va riconosciuto e ricompensato”.
Questa frase è sempre stata la guida cui mi sono attenuto, a costo di andare controcorrente sia nei confronti dell’azienda, che a volte per “ragion di stato” mi costringeva a sospendere questa regola come dirò più avanti con qualche esempio, sia verso la base costituita dagli operai/ie meno qualificati e dai sindacati, che proprio da questa categoria numericamente rilevante traeva la sua forza.
Anni Settanta, si poteva parlare di merito?
Purtroppo la linea di appiattimento dei meriti trova negli anni ‘75-’80 il massimo del consenso, creando le basi del dissesto culturale del quale ancora soffriamo. Non ho mai avuto dubbi che “il merito vada ricompensato”. I dubbi cominciavano quando si doveva misurare il “merito”, quale il metro, la procedura, i criteri, le varie componenti, come escludere simpatie e antipatie, quale il peso percentuale della componente “merito”?
Manualità, creatività, intelligenza, disponibilità, intuizione meccanica relativamente agli stampi, capacità di istruire, fisicità, senso di responsabilità, onestà. Per lungo tempo negli anni ’60 mi chiedevo e chiedevo alla direzione lumi in proposito. Sono stato invitato a conferenze, a qualche convegno di studio. Finalmente, forse con la Garedon, ho avuto un indirizzo da elaborare per la nostra specificità aziendale. Ho fatto ripetute prove confrontando i dati forniti dai vari capireparto con l’aiuto dei capisquadra, fino a ottenere degli automatismi di giudizio a mio parere accettabili. Purtroppo nel mio archivio non ho più ritrovato copia con relativa procedura applicativa ma posso descrivere, a memoria, i capitoli costituenti il merito relativamente al nostro lavoro e ai tempi.
Manualità. Era una qualità importante per quei tempi e per i reparti interessati, come la sala presse e la manutenzione stampi, dove l’intervento manuale era fondamentale. Oggi non è più così, la manualità è sostituita da una buona progettazione e da macchine utensili con le quali si ottengono stampi di una precisione irraggiungibile dal meccanico più fine.
Intelligenza meccanica. Capacità di lettura dei problemi degli stampi, di proporre soluzioni e di attuarle.
Continuità di prestazioni. Disponibilità alle emergenze, alle urgenze, allo straordinario. In particolare era necessario la possedessero gli operai più capaci perché proprio il loro operato creava lavoro per tutti gli altri. Queste caratteristiche mi davano quella flessibilità così importante per il buon funzionamento del sistema. In quei tempi il mio obiettivo era invece di disporre di tutti meccanici autosufficienti e per questo avevo spinto per ridurre l’elemento femminile dai ranghi dell’area stampi, dato che dopo pochi anni di presenza in fabbrica la maggioranza si licenziava per sposarsi.
Tuttavia l’autosufficienza e la flessibilità erano caratteristiche ritenute, dalla controparte, una forma di sudditanza, di servilismo e quando il sindacato ha ottenuto la suddivisione delle prestazioni, il mansionario, la produttività industriale ha subito un rallentamento. Infatti, se una persona non qualificata accedeva a lavori specializzati automaticamente doveva passare di categoria, anche se non si era potuto verificarne le capacità. In questo modo si è creato quell’appiattimento salariale che ha mortificato i meriti e da qui il disamore dei più capaci, che si sono licenziati, alcuni davvero bravi, come Facchin, Bonaldi, Schiavon, Boscato, mentre altri se ne sono andati perché incostanti, insofferenti alle regole di convivenza. Alcuni sono ritornati anche tre volte. Questi si trovavano nei reparti mobili della Zedapa i cui capi, quando non ne potevano più, li “scaricavano” alla sala presse. Erano queste le anomalie che la direzione mi costringeva a sopportare perché questi operai capaci non andassero dalla concorrenza.
Creatività. È un aspetto dell’intelligenza meccanica che consente di allargare il campo d’azione del fare.
Fisicità. È questo un aspetto delicato da trattare. Rimane comunque un dato di fatto del quale non si può prescindere nella valutazione.
Responsabilità. Eseguire il lavoro come fosse cosa propria. Non è una dote che abbonda…
Capacità di istruire. Non potrei sottolineare mai abbastanza questo aspetto, considerando quanto lungo sia il tempo di maturazione di un meccanico stampista.
Onestà. Dote ovvia che non ha bisogno di lumi.
Come detto poc’anzi ho messo a punto un prontuario che mi è stato d’aiuto per regolare la premialità del “merito”. Il grande problema fu la non condivisione da parte del sindacato dei criteri adottati. Con l’avvento della cooperativa Coopotronic e quindi della Zetronic questi criteri sono venuti a mancare e spesso le promozioni e i miglioramenti economici venivano distribuiti in funzione dei colori politici: bianco=democristiani, rosa=socialisti, rossi=comunisti.
Per questo me ne sono andato con la morte nel cuore. Dopo due anni venni richiamato dalla Direzione generale con la quale concordammo le condizioni del rientro, fra le quali il riconoscimento del merito. La proprietà, la Coopotronic, pose il veto. Qualche anno più tardi la Molex, società americana, comprò la Zetronic e impose il riconoscimento del merito e il licenziamento del personale in soprannumero, che venne a ricadere sullo stipendio di quelli che furono assunti così come le liquidazioni della Zedapa che furono fagocitate dalla cooperativa.
Fu elaborata un’altra ipotesi di soluzione della crisi Zedapa: dividere le produzioni tradizionali quali occhielli, rivetti, bottoni automatici, dalle nuove tecnologie per l’elettronica. Impensabile. Durante il periodo della mia permanenza in Zetronic ho avuto l’incarico di presentare un piano di scorporo della produzione tradizionale che ho redatto completo di analisi degli articoli da eliminare perché per varie ragioni non remunerativi, dei mezzi di produzione, degli uomini, compresi i responsabili e l’organizzazione connessa. Nel frattempo la Direzione generale ha costituito una società, la Zetronic-Collini, per commercializzare i prodotti scorporati. Tale scorporo fu realizzato dopo le mie dimissioni. L’esperienza non ebbe successo a dimostrazione che il tradizionale, non avendo avuto l’evoluzione tecnologica per privilegiare l’elettronico, non era più competitivo.
Questo confermò ancora una volta che i posti di lavoro non si creano per legge o per ideologia o per buone intenzioni bensì con un’attenta evoluzione tecnologica.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!”, Libro I, pagina 109