diario dalla finestra di casa Libro II Mi Sono Sbottonato!

5 luglio 2020 “Un pomeriggio in Ahmadabad”

5 Luglio 2020

Questo scritto l’ho steso dopo aver visto la fotografia dell’imprenditore indiano Shankar Kurhade di Puke con la mascherina anticovid in oro. Corriere della Sera del 5 gluglio 2020.​

“Un pomeriggio in Ahmadabad, la città delle vacche”

Il viaggio è iniziato a Mumbay; dopo qualche giorno siamo arrivati a Ahmadabad in aereo, in un caldo pomeriggio. Si trova nel Gujarat, è la terra natale di Gandhi e della sua famosa marcia del sale contro il protettorato inglese, allo scopo di violarne il monopolio.

L’attraversamento della città dall’aeroporto è stato violento. Traffico caotico costituito contemporaneamente da biciclette, camion, pedoni, tuc tuc, auto e mucche, che per diritto divino hanno sempre la precedenza, alcune stese sull’asfalto a ruminare: in questo caso il fiume di uomini e mezzi in moto si compatta, compenetrandosi gli negli altri fino a superare la strettoia provocata dal ruminante. Superato l’ostacolo i mezzi riprendono velocità, espandendosi fino al prossimo ingorgo, magari dovuto alla perdita del carico di qualche camion, eventualità tutt’altro che rara. Ne ricordo uno vissuto in un altro viaggio: un trattore trainava su un’autostrada ad alto traffico un rimorchio con sopra un sacco di iuta di metri 15 x 4 x 4 di altezza contenente fieno sminuzzato. Il sacco è scoppiato, il vento ha fatto il resto. Dettaglio: in città, dal finestrino del pulmino, guardavo negli occhi, a una trentina di centimetri, i passeggeri di un tuc tuc, ci alitavano in faccia.

Finalmente arrivati all’albergo, o meglio nelle vicinanze, il nostro autista accompagnatore è incerto (è risaputo che gli autisti non conoscono le carte stradali), siamo all’imbocco di un ponte su un largo fiume in cui l’acqua è ridotta a un rigagnolo, stagione secca. Finalmente l’autista si orienta e imbocca una strada in dissesto dall’asfalto disintegrato, sembra il greto di un torrente. Sulla sinistra, su quello che dovrebbe essere l’argine, una lunga sequenza di sfavillanti alberghi. Ogni tre o quattro alberghi si apriva una carrareccia che si addentrava verso il fiume coperto da una fitta boscaglia. Più tardi ho scoperto che si trattava di una baraccopoli alle spalle degli alberghi, ognuno dei quali aveva innalzato un altro muro di protezione. L’auto entra nel recinto dell’albergo, valletti in gran galà, aria condizionata glaciale, fuori 35°, moquette sfarzose ovunque, puzzolenti di umidità. Noi con le credenziali in mano, pagamento anticipato, ci informano che non c’è posto. Comincia una discussione levantina. Ci propongono un albergo in centro città in una palazzina coloniale. Due di noi vengono accompagnati con l’auto dell’albergo a verificare la nuova sistemazione. Il tragitto fu una gincana. Si trattava di una palazzina coloniale tutta archetti e colonnine di legno trasformata in una stamberga di piccole stanzette con letti a castello, forse una vecchia fumeria d’oppio! L’autista ci ripeteva “no problem, no problem”!

Tornati indietro abbiamo infine trovato una soluzione presso un albergo sulla stessa strada. Sistemazione buona. Mi accorgo però che il mio letto, tutto lindo e stirato, è umido. Chiamo, prima ancora che io parli mi dicono “no problem, provvederemo”! Noi usciamo per visitare una cooperativa di sole donne di un magazzino di abbigliamento. Uscendo mi accorgo che sul marciapiede della strada/torrente a ridosso dell’albergo c’è un uomo sdraiato su un lacero materasso, dal voto scarnificato, lo sguardo allucinato, moribondo, vicino aveva una mezza bottiglia d’acqua. I passanti non lo degnavano di uno sguardo. Dopo qualche ora torniamo in albergo, il moribondo sempre nella stessa posizione, c’era però un piattino di plastica vuoto e la bottiglia d’acqua piena. Vado in camera e controllo il letto, è ancora umido. Avevano solo rovesciato il materasso. Ho portato il letto in corridoio, la portineria mi ha assicurato “no problem no problem”!

La cena è stata organizzata nel giardino sul retro dell’albergo, a ridosso del muro divisorio dalla baraccopoli, dalla quale non arrivavano rumori, però l’olezzo di fogna a cielo che scendeva dal muro ci ha convinti a ripiegare nella sala interna, nonostante l’aria condizionata glaciale. L’indomani mattina partendo abbiamo rivisto il morituro sempre nella stessa posizione e con lo stesso sguardo allucinato, sul piattino una piadina e la bottiglia dell’acqua piena… L’albergatore ci ha consigliato di non addentrarci nella baraccopoli. Non l’abbiamo fatto, era più facile dimenticare.

Potrà mai l’umanità uscire da tali contraddizioni?

Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!” Libro secondo, numero 182

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