Un singolare viaggio: tra impressioni sociologiche e note comiche.
Tonin e Cesca, sorella di Franca, propongono un viaggio di una decina di giorni in Russia, allora Unione Sovietica. Sarà per me occasione per verificare di persona quanto si mormora sottovoce dello Stato Sociale di quel paese, in contrapposizione allo stato di benessere raggiunto in Occidente. L’occidente in quegli anni era sotto l’attacco della contestazione di sinistra che lavorava per portare l’Italia nell’area sovietica. Quindi in un contesto di conflitto aperto tra due visioni del mondo: la democrazia dell’Occidente appesantita da una miriade di limiti dovuti alle diverse sensibilità in gioco e al malaffare, in opposizione alla democrazia del proletariato incarnata dalla dittatura del Partito Comunista in Unione Sovietica. Ci siamo associati ad un gruppo di turisti di Vicenza di cui facevano parte Tonin e Cesca. Questo scritto non vuole essere un saggio politico: sull’argomento farò solo appunti sui fatti che mi hanno colpito.
Raggiungiamo l’aeroporto Marco Polo di Venezia per la partenza per Mosca alle ore 20 circa. Qui cominciano i primi inghippi, l’aereo in ritardo di alcune ore, come al solito secondo voci di corridoio dell’aeroporto, che ritarda l’arrivo a Mosca verso le 3 di notte, anziché prima di mezzanotte. Naturalmente malumori, proteste, ovviamente inutili in particolare nei confronti del personale dell’aviolinea sovietica. La reazione di quest’ultimi fu singolare. Forse essendo di routine ci avevano fatto l’abitudine. Ai loro occhi noi viaggiatori non esistevamo, nessuna reazione, non un sorriso di scusa o disappunto per essere ricoperti di improperi. Praticamente la caratteristica faccia di bronzo. Finalmente saliamo a bordo, le pulizie erano state fatte molto sommariamente dato il ritardo e la sistemazione risultò caotica anche perché noi viaggiatori poco adusi ai viaggi aerei ritenevamo normale scambiarci i posti creando confusione al caos endemico. Si parte. Lo spuntino previsto in volo risulta del tutto insufficiente sia per qualità che quantità dato il ritardo. Lo spuntino sarebbe stato seguito dalla cena in aeroporto a Mosca prima di mezzanotte.
A Mosca
Finalmente a Mosca. L’aerostazione era completamente al buio. Al nostro passaggio si accendevano flebili luci per arrivare alla consegna bagagli. Lunga attesa, poi ci accompagnano al piano superiore in un’enorme sala da pranzo sprofondata nel buio salvo un angolo predisposto per noi. Sistemati in tavoli da sei posti, dei camerieri assonnati e malvestiti portano grandi piatti da portata di cibi freddi e verdure fresche, grossi cetrioli non sbucciati, terrine di cavoli rossi e bianchi, pesce crudo e marinato, salumi e lardo, il tutto al centro di ogni tavola da cui servirsi. Le bevande: acqua e una bottiglia di birra ciascuno. Abbiamo fatto buon viso a cattiva sorte, anche perché i camerieri erano spariti, Inoltre l’accompagnatore/interprete sarebbe arrivato il mattino successivo, quindi mancava anche la comunicazione.
A questo punto entra in scena un fatto personale, la Franca desidera prima di mangiare del vino, cerco di convincerla alla birra senza riuscirci. Tonin viene il mio aiuto con ugual esito. L’imbarazzo con i coinvitati è palese. Mi alzo e cerco un cameriere, ogni tanto uno di questi usciva dal buio come una falena e subito spariva. Lo raggiungo e in qualche modo riesco a farmi capire circa il vino. Torno al tavolo, tutti mangiamo brontolando, Franca no, il cibo non era invitante. Dopo un po’ arriva il vino, il cameriere mi mostra il conto, io porgo dei dollari, lui mi mostra che il conto è in rubli, nessuno li ha, non potevamo averli, dato che non avevamo visto nessun ufficio cambio al buio. Il cameriere sempre silente si riprende la bottiglia del vino e se ne va. Noi allibiti. Franca conferma di volere il vino, non voglio fare una scenata tra gente estranea. Mi alzo, prendo un ascensore e scendo al piano terra, un grande salone buio con luci di posizione qua e là. Nessun ufficio informazione in vista. Solo in un angolo lontano una lucina ad uno sportello, l’agognato ufficio cambio. Lo raggiungo e trovo un uomo con le braccia incrociate sul tavolo che dorme. Busso, lentamente si desta e mi guarda scocciato, chiedo il cambio dollari/rubli, a gesti. Compilo moduli, firmo, mi consegna i rubli senza mai dire una parola. Si riaddormenta. Torno al ristorante, incontro un cameriere, mostro i rubli, chiedo il vino. Vado al tavolo dove tutti hanno finito fuorché io e Franca, io mangio, lei qualche boccone, arriva il vino e beve, non so se l’avanzo l’abbiamo lasciato lì o ce lo siamo portato via, era un vino nero nero del Caucaso, l’ho dedotto dalla cartina geografica sull’etichetta, aspro come il Terrano del Carso.
Della visita di Mosca ricordo bene la visita dei luoghi simbolo: il Cremlino, le sue chiese incantevoli, una foto con il gran cannone, i saloni del potere. La Piazza Rossa, la chiesa di San Basilio, l’ovvio centro commerciale, il magnifico museo. Della città quasi nulla. In visite di lavoro successive ho approfondito la conoscenza di molti altri luoghi, c’è una palazzina fra palazzoni piena piena di erbacce quando l’ho vista, progettata da Frank Lloyd Wright. Siamo stati a vedere un monastero a 70 km dalla città, anche questo bellissimo, fastoso, tutto oro e icone. Le funzioni religiose piene di luce che riverberano nell’oro in un mare di sfavillii, bassi profondi e armonie tipiche degli ortodossi.
Visita di Leningrado
Leningrado: fa freddo, folate di nevischio. Impressionante la Prospettiva Nevskij, larga strada costeggiata da palazzoni rinascimentali, l’immenso Ermitage sull’altrettanto grande piazza purtroppo deturpata da grandi stendardi fotografici degli uomini del partito e del potere, ricchissimo il Museo. A prima vista sgargiante ma, al di là delle opere d’arte esposte che sono di per sé di immenso valore, la struttura in muratura e legno è degradata, scrostamento dell’intonaco, screpolature alle parti in legno e vernice. Si percepisce un senso di abbandono, di incuria. Il tocco finale proviene dalla vista delle “signore”, in realtà le custodi del museo, imbacuccate di vesti per proteggersi dal freddo, con lo scaldino tra i piedi sedute su bassi sgabelli: ho subito pensato al rischio fuoco in una struttura così peculiare per i suoi contenuti. Anche le persone trasmettono un senso di apatia, come di chi non trova nessun interesse per quello che fa. Questo stato di cose l’ho verificato in tutti gli stati dell’Unione Sovietica nei miei molti viaggi di lavoro in quei paesi, sia nelle fabbriche che negli uffici, nei negozi, ristoranti, servizi pubblici, ovunque. Sembra un marchio identitario del proletariato sovietico. Anche il palazzo d’estate fuori città, a una trentina di chilometri, è nelle stesse condizioni, segno evidente che la società tutta è stabilizzata ad un regime di rassegnazione.
Torniamo alla Franca, nella Prospettiva Nevski siamo scesi in un negozio sotto il livello stradale nel quale vendevano stoffe, ne comprò una quantità incredibile tanto che per portarle ho stesso le braccia e su queste impilati tagli di varie stoffe, per fortuna stavamo rientrando. Se non che la sfortuna volle che proprio lì ci fossero i grandi magazzini, simili a quelli di Mosca, un grande salone di più piani con ballatoi sui quali si aprivano centinaia di negozi, i più diversi. Franca e Cesca entrarono per visitarli. Con la speranza che non facessero altri acquisti Tonin e io ci fermiamo appena oltre la porta d’entrata vicino a un grosso termosifone per scaldarci e appoggiarci sopra la mia mercanzia. Il guaio è che quando aprivano l’enorme porta alta tre metri e lenta a chiudersi, entravano delle folate di vento e nevischio da togliere il fiato. Tonin sbuffava, io pure.
Finalmente le signore tornarono e sempre sotto la neve rientrammo in albergo con le due bracciate di stoffa. Il piano delle nostre stanze era piantonato da un’addetta allo scopo di agevolare il cliente, in realtà era risaputo, ma ho avuto conferma successivamente, sovrintendevano che nelle stanze non entrassero estranei in particolare nel fine settimana dove frotte di finlandesi sbarcavano per fare incetta di alcol e sesso. La signora si complimentò per gli acquisti e approfittò per chiederci di venderle calze da donna e biancheria intima. Non era nei nostri programmi. Quando fummo nella stanza ho dovuto affrontare l’arduo compito di stivare nelle valigie, già piene di suo, le pezze di stoffa, compito mio e non di Franca. L’ho risolto decidendo che al momento della partenza avremmo indossato più capi di vestiario uno sull’altro.
Un momento di colore, piuttosto cupo, l’abbiamo avuto durante una passeggiata dopo pranzo. Davanti a una macelleria molto grande, cinque ampie vetrate con esposti una miriade di barattoli di verdure diverse senza la presenza di nessun tipo di carne o salumi. All’esterno, sotto il consueto nevischio, una lunga coda, due tornanti in accoppiata si snodavano fino alla porta d’entrata. I clienti entravano due alla volta, al bancone dietro le bilance da salumiere due uomini in grembiule bianco prendevano da due
grandi cestoni un pezzo di carne con osso, di dimensioni abbastanza omogenee, lo mettevano su un foglio di carta, la pesavano e la consegnavano con il peso segnato con una matita che tenevano appoggiata sopra un orecchio. Alla cassa una ragazza riscuoteva il dovuto. Come si può ben comprendere non c’era possibilità di scelta né per la qualità né per la quantità. Solo il caso poteva evitare di portarsi a casa mezzo orecchio o un pezzo di pene con i relativi attributi.
Nello stesso luogo un altra immagine mi ha colpito: un uomo sdraiato addosso a una delle vetrine, all’esterno, con la neve che gli si accumulava addosso, teneva in mano una bottiglia di vodka vuota arrotolata con carta di giornale, era con tutta evidenza ubriaco. Il tutto nell’indifferenza generale. Solo qualche sguardo di disgusto di qualche “codaiolo”. Questo è stato l’ultimo ricordo del viaggio.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!” Libro secondo, nr. 140