Libro II Mi Sono Sbottonato!

Recupero stoffa

4 Giugno 2020

La nonna è caduta. Si va al pronto soccorso, si percorre il consueto transito di dodici ore, la nonna non è nuova alla cosa, in fondo al quale decidono di ingessare il gomito destro. Torna a casa e cominciano le difficoltà dovute allo stato di menomazione che comporta il braccio destro chiuso ad angolo nell’ingessatura, dal mangiare con la mano sinistra alla quale non è adusa. Al momento di andare a letto si presenta l’operazione di svestimento, si tenta in vari modi di sfilare il lungo vestito senza risultato.

Prima di procedere in termini invasivi, tagliare il vestito con le forbici, mi sono ricordato che da ragazzino, 9-12 anni, ero diventato provetto nel recuperare la stoffa da vecchi vestiti da uomo e da donna.

La zia Amalia faceva la sarta, si era accordata con sua sorella, mia mamma, per una specie di cooperazione di lavoro fra loro due. Consideriamo il momento storico, siamo in piena seconda guerra mondiale, povertà estrema, pertanto qualsiasi idea, anche la più improbabile, era la benvenuta.

Mia mamma, abitando in città, lavorava qualche ora al giorno presso famiglie benestanti per fare i lavori domestici. In questo modo aveva occasione di recuperare vestiti dismessi di qualsiasi tipo, che avrebbe scucito con cura, stirato per bene recuperando le stoffe con le quali la zia Amalia avrebbe confezionato vestiti per i tanti bambini della famiglia, contadini, che avrebbero ripagato in natura.

Ora che ho descritto il ciclo produttivo, dirò del mio inserimento nel ciclo stesso. Ero particolarmente abile con le punte della forbice a tagliare i fili delle cuciture degli abiti da recuperare senza far tagli o strappi nella stoffa stessa, nonché poi con il ferro da stiro a carbone dolce a raddrizzare le pieghe della stoffa lungo le vecchie cuciture. Mi sentivo importante per il contributo che davo all’economia domestica.

La zia Amalia fu memorabile e in qualche modo incredibile, mi confezionò un completo giubbetto e pantaloni corti, eravamo all’ultimo anno di guerra, ricavato da un paracadute per spezzoni illuminanti che gli aerei di supporto lanciavano nottetempo sugli obiettivi da colpire a beneficio delle fortezze volanti, i bombardieri, al seguito.

Torniamo al “completino”, la cui stoffa era uno spesso strato di rayon bianco/crema, traslucido e piuttosto pesante. Quando l’ho indossato durante la prova-sarta era tutto rigido, la zia mi disse di non preoccuparmi, con il tempo si sarebbe ammorbidito. Rimase invece sempre rigido e indistruttibile. Solo per il fatto che sono cresciuto di taglia mi liberai presto del completo, a danno però di mio fratello Vittorio che dovette sorbirselo per un bel po’ di tempo. Aveva un altro difetto, data la rigidità del tessuto, i pantaloncini corti strusciavano all’interno delle cosce provocando delle spiacevoli abrasioni: per rimediare, la zia mise una strisciolina di stoffa morbida all’interno delle braghette.

La prima volta che lo misi per andare a messa ero al centro dello stupore di tutti, non solo dei miei amici ma anche degli adulti che volevano sapere da dove arrivava quella stoffa. Certamente non c’era proprio nessun altro in giro vestito così! Ero imbarazzato, ma continuai ad indossarlo anche a scuola.

Zia Amalia ebbe un’altra idea davvero unica. Avevo scucito e recuperato una vecchia camicia, con la quale mi confezionò una “pettorina”. Si trattava di una pseudo camicia costituita dal colletto e dalla parte anteriore con 5 bottoni, il tutto tenuto insieme sul retro da fascette di stoffa annodate tra loro. Sopra di essa veniva indossata la giacca oppure un gilet o un pullover. Facevo un figurone.

Anni dopo questa soluzione l’ho vista in un film italiano neorealista degli anni ’50.

Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!” Libro secondo, nr. 137

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