Squilli, macchine, bandiere,
scoppi, sangue! Dimmi tu,
che succede, cammelliere?
È la saga di Giarabub!
Colonnello, non voglio il pane,
dammi il piombo pel mio moschetto!
C’è la terra del mio sacchetto
che per oggi mi basterà.
Colonnello, non voglio l’acqua,
dammi il fuoco distruggitore!
Con il sangue di questo cuore
La mia sete si spegnerà.
Colonnello, non voglio il cambio,
qui nessuno ritorna indietro!
Non si cede neppure un metro,
se la morte non passerà!
Avevo 10-12 anni quando la cantavo, me l’hanno insegnata per ricordare e immortalare le gesta dei giovani volontari che difendevano i sacri confini dell’impero. A questa canta associo Italo, uno dei figli di Franco, tornato da Tobruch senza le gambe da sotto il ginocchio, l’altro figlio era già morto in Croazia.
Non so per quale associazione di idee, ma quando la cronaca odierna parla dei migranti provenienti da quel deserto penso all’oasi di Giarabub, alla tragedia che si consumò nei primi anni ’40 del secolo scorso e alle tragedie che quell’inferno della natura e dei suoi abitanti fanno vivere ai migranti provenienti dall’Africa nera. Nera non tanto di pelle, ma nera di fame, soprusi, ingiustizie.
Le parole della “canta” erano gli slogan di quel duce che perorava la difesa dei confini allargati dell’Italia imperiale così come oggi il suo epigono Salvini incita, insulta, maledice i presunti invasori, uomini, donne, bambini, lattanti magari frutto di stupri nei centri di detenzione in Libia.
Dimenticando, il baciacristi Salvini, i milioni di italiani che hanno invaso il mondo cacciati dalla terra natia, uno per tutti Bergoglio, a causa della fame, dei soprusi, delle ingiustizie, alla ricerca incognita di mezzi da mandare in patria per sfamare le famiglie schiave di una società medioevale in mano a conti e marchesi possessori di terre e finanze.
Voleva il Salvini ricreare le condizioni per riproporre un nuovo comunismo, maoismo? È sulla buona strada, oggi ha il 38% dei consensi degli italiani, ancora un paio di navi ONG e il “popolo bue” è maturo per la marcia su Roma, così come lo fu nel 1923.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!” Libro secondo, nr. 136