Dei molti, sempre troppo pochi, viaggi che ho fatto, quelli che mi hanno segnato sono i viaggi indiani, dove tutto è improbabile anche l’ovvio. Leggendo, ho trovato una descrizione, che il mio stato d’animo ricalca, di Guido Gozzano: “Lettere dall’India 1912-1913”.
Agra, 28 gennaio. Oggi, costeggiando le rive del Giumma, contemplo dal basso il maniero ciclopico e stento a ritrovare con gli occhi le logge, le verande di trina marmorea dove ieri ho sognato a lungo nel tramonto di brace. I palazzi di marmo incantato appaiono come un sottile frastaglio niveo alla sommità della mole rossigna, la quale esisteva già mille, duemila mila anni orsono, ai tempi delle origini braminiche, ai tempi dei re Giaima e Pali. I Gran Mogol, ultimi giunti, sovrapposero alla mole espugnata la loro dimora aerea e al granito fulvo della fortezza ciclopica i fiori di marmi candidi nell’azzurro del cielo. Oggi i signori e le belle dormono in un’altra reggia: quella dei morti, più meravigliosa della reggia dei vivi, il Tai Mahal. Il Tai Mahal!
Mi avvio al miracolo dell’Oriente con la mia diffidenza consueta per le cose troppo magnificate dalla leggenda. Mi preparo alla delusione entrando nel vasto parco alberato di una vegetazione cimiteriale: palmizi e cipressi. I cipressi formano una galleria sul mio capo, giganti islamitici che fondono tronchi e la fronda di bronzo quasi nero. Ed ecco, d’improvviso, la meraviglia unica del mondo. Poche volte la realtà ha superato la mia aspettativa, poche volte una bellezza mi ha investito così violentemente, mozzandomi la parola e il respiro, forzandomi all’ammirazione e alla riverenza completa.
Sullo scenario a due tinte, l’azzurro del cielo e il bronzo cupo dei cipressi, si innalza la più immacolata e gigantesca mole sognata da questi sultani amici del candore. Una semplicità che sfugge alla parola e all’indagine estetica. Sullo zoccolo immenso una cupola eccelsa e ai lati quattro minareti scagliati al cielo: non altro. Il motivo classico dell’India islamitica, il motivo profanato da tutta la chincaglieria occidentale, esecrato negli scenari d’operetta, nei lavori ad uncinetto e nelle oleografie, ma divino nella verità del modello!
Di marmo candido, eterno, e pure sembra fatto della sostanza e labile e traslucida delle nubi, nubi a cumulo, tondeggianti, che s’alzano in questo momento dietro la cupola immacolata, quasi a gareggiare in grazia e in candore, formano nel cielo di turchese un contrasto forse meno luminoso e meno immacolato. L’azzurro del cielo, il candore delle nubi e dei marmi, il bronzo cupo dei cipressi, tutto è riflesso in un gran lago tranquillo che addoppia il miracolo, con il candore di certi smalti persiani.
Avanziamo quasi increduli, temendo dell’incantesimo creato da un negromante, di uno scenario che debba dileguare come la Fata Morgana; ed ora soltanto mi meraviglio della mole del mausoleo, il tripudio dei colori mi aveva fatto smarrire il senso della misura. Ma una teoria di pellegrini che sale le scale sembra una schiera minuscola d’insetti, così lenti nel giungere da un portico all’altro. Arriviamo anche noi alla mole che abbaglia.
E da presso appare all’occhio abbacinato quanto l’arte costretta alla semplicità assoluta possa tuttavia fare nel marmo, e vediamo il Tai quale è veramente, una mole e un gioiello, l’edificio di un titano e il capolavoro di un cesellatore moresco, ottenuto con gli scarsi motivi islamitici: ornati geometrici, ghirlande di parole sacre, gracili motivi floreali. E anche qui l’onice nerissima, intagliata e immessa nel marmo con una tecnica sconosciuta al tempo nostro, segue ogni voluta, ogni traforo, aumenta il candore opalescente dell’insieme, come una striscia di kool tracciata dal pennello sottile sotto la palpebra, aumenta il balenio perlaceo di una baiadera. Le porte d’argento-l’argento sul candore del marmo!-riproducono l’intero Corano, a parole composte e ricomposte come in una cabala.
Entro nel mausoleo, mi avanzo verso i due mausolei dove dormono da tre secoli i coniugi amanti che vollero con l’amore vincere la morte. Poiché tutti sanno che il Tai Mahal fu eretto dall’imperatore Shah-Jehan, disperato folle per la morte immatura della sposa, la bella Mahal, che sorride ancora oggi negli smalti e nelle miniature indo-persiane, morta nel 1618 non di mal sottile, come vuole la leggenda sentimentale di qualche viaggiatore, ma nel dare santamente alla luce un settimo figlio. E non so dire quanto mi intenerisca quell’amore passionale e tragico in quel romanzo onestamente coniugale. Si racconta che il vedovo impazzito s’aggirasse per le sale della reggia aerea, vivesse come se la sposa fosse sempre con lui, sorridendo, parlando, chiamandola per nome, indicandola ai figli e ai cortigiani allibiti. E la vita che visse ancora fu tutta un’allucinazione passionale, un’amorosa convivenza con il fantasma visibile a lui solo, che egli accompagnava per le terrazze e per i giardini, presentava nei banchetti e nelle feste ai cortigiani e al popolo impietosito.
Da quella demenza è sorto questo miracolo funerario. L’amore ha veramente vinto la morte. Il mausoleo tre volte secolare è intatto come se costruito da ieri. I coniugi amanti dormono vicini, in eterno. Sotto la cupola eccelsa più di qualunque nostra cattedrale, luminosa, nell’ombra senza finestre, di una luce sua propria, si intrecciano con delicati motivi floreali le sentenze del Corano. Sentenze indecifrabili per me, ma che certo devono ripetere ai due amanti le parole che le religioni di tutta la terra dissero in ogni tempo all’amore e alla morte.
Nota: per meglio assaporare la magia di questo racconto accompagnano la lettura una o più fotografie di quest’unico pensiero umano materializzato nel Thai Mahal.
Toni Schiavon, “Incredibile India”, “Minuterie Letterarie”, pagina 26-31.