Qualche giorno fa Betti ha mandato due fotografie, una del tramonto sul mare e tetti, l’altra di fiori di campo e erbe per il risotto. La vista di questi due documenti ha aperto un varco alla nostalgia che ho sempre avuto per Trieste. Tutto cominciò 25 anni fa. Betti con Maurizio e Carlo si trasferirono a Trieste. Maurizio aveva avuto la cattedra in quella università. Acquistarono una vecchia casa di campagna sul fianco di una collina stretta tra altre case con una stretta e contorta corte in comune, con una ancora più stretta stradina d’accesso. Adiacenti ma separate dalla casa, le “stallette” per il maiale, gli attrezzi agricoli e di deposito. Tutto in uno stato fatiscente. I muri spessi fino a 90 cm di grigio pietrame carsico. Il piano terra nei tempi andati era adibito a stalla. Togliendo le soffittature sono risultate tracce di incendio che hanno lasciato su travature e pietrame una patina di nerofumo indelebile.
Quello che rende questa casa oggetto delle mie nostalgie è il giardino/orto/campo/bosco/zoo/erbario/frutteto/vigna/pollaio/uccelliera. Altre caratteristiche: la siepe di essenze selvatiche, pruni, “stroppacui”, edera allo stadio di albero, muri di sostegno di un paio di metri che danno la misura della pendenza, e di recinzione a secco; alcuni ceppi ormai rinsecchiti di un vigneto che risale nella memoria dei vecchi alla prima guerra mondiale. Di quel vigneto è rimasto un piccolissimo ceppo, lo abbiamo tirato fuori dal sottobosco e fatto fruttificare.
Per avere idea della vetustà del luogo ho trovato una pietra con la data 1794. Sollevando il tavolame di pavimento del sottotetto, nell’intercapedine ottenuta col soffitto a cannucce della stanza sottostante, ho trovato tra le foglie di quercia usate come coibente termico un revolver e due baionette dell’esercito austro-ungarico. E sempre tra le foglie di quercia alcuni nidi di topi imbottiti di brandelli di giornali in lingua slava, mi hanno detto, evidentemente del tempo di dominazione asburgica. Non vado a raccontare l’immane lavoro per rendere abitabile la stamberga. Dico solo che proprio quel lavoro mi fa sentire parte intima di essa.
Quelle due foto sono una testimonianza di questa simbiosi. La prima, il tramonto sul mare… da uno spicchio di abbaino, proprio per la sua ristrettezza che limita la visuale e ti costringe a vagliare i dettagli. Quel lampo di sole e mille tetti. Subito penso ad altri orizzonti: a mezzanotte, alle 3, alle 5 di notte a guardare il firmamento pieno di stelle nella notte buia, al trascorrere delle stelle fino a far uscire l’Orsa Maggiore dietro il profilo della collina all’orizzonte. Anche qui il cielo era limitato ad uno spicchio a causa degli alberi; verso l’alba l’ultima stella, Venere, più brillante che mai. Con la luna l’incanto cambiava, era tutta una fuga di lampi di luce tra il buio degli alberi.
Nella notte di San Lorenzo ad inseguire le stelle cadenti che sparivano tra le chiome scure degli alberi. Io seminudo ad ascoltare il verso degli uccelli dal poco lontano “Boschetto” sul versante opposto della ripida valletta. L’incanto del luogo sta anche nel fatto che, pur essendo densamente abitato, con case molto vicine le une alle altre, dal giardino si intravede qualche tetto, qualche scorcio di facciata con il balcone, lasciandoci comunque in un’isola separata.
In quest’isola ho scritto la favola del riccetto. In quest’isola sto come stare in una favola. I crochi a febbraio tra le chiazze di neve, il turbamento della bora che ti scuote, l’insalata che cresce, il finocchio selvatico che sbuca ovunque, l’invasione dei roseti. Le scoperte insolite, ero nel pollaio, ho alzato una sottile lastra di pietra sotto la quale due nidi di topi campestri, una decina o più di topini ciechi, avevo sempre tra i piedi le galline che in un batter d’occhio con poche becchettate se li sono mangiati. È la vita. Potrei continuare, il fiorire dell’albicocco e del melo, le processionarie sull’alto pino, i ricci a pranzo nella ciotola dei gatti, il gatto che ti porta sullo zerbino della porta a mo’ di trofeo la testa di un grosso topo come a dire: guarda che bravo che sono.
Fiori di campo, erbe per il risotto: sono il frutto di quel giardino a cui ho attribuito molti altri nomi, quel terreno non ancora addomesticato, come lo sono invece i prati delle ville o dei giardini pubblici e privati. Qui i semi sono quelli originali dall’evoluzione delle ere del tempo e che le generazioni degli uomini hanno imparato ad utilizzare. In quel fazzoletto di terreno ho riscoperto la campagna della mia infanzia che tanto ha inciso su di me.
La nostalgia di Trieste è la nostalgia della mia fanciullezza, riviverla ora anche senza la collaborazione delle mie gambe, che comunque ringrazio per il molto che mi hanno dato e consentito di scoprire un po’ di mondo e del vivere. Spero di essere riuscito a trasmettere questi sentimenti a chi mi è stato vicino, in primis figli e nipoti. Grazie.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!” Libro secondo, nr. 134