Sono i fatti della vita, nostra e dei nostri predecessori, che la mente registra e archivia nella memoria e che trasferisce attraverso tradizioni, costumi, abitudini ai figli, i quali sommano le loro personali esperienze a quelle ricevute dagli avi per costituire e aumentare il bagaglio più importante dell’uomo: il sapere.
Descriverò ora una consuetudine che ritengo davvero fondamentale, perché l’affievolirsi della responsabilità al rispetto di questa abitudine è oggi causa di molti danni. Avevo 12 anni, vivevo in campagna, sfollato dalla città a causa dei bombardamenti aerei e aiutavo mio zio nei lavori sui campi. In primavera e a ottobre-novembre era il tempo della cura dei fossi. Questi dovevano avere il loro alveo e le sponde libere da alberi, arbusti, erbacce, foglie: sull’alveo dei loro argini c’erano alberi, anche questi tenuti curati, alcuni a capitozza. Lo zio aveva in dotazione, dallo Stato, un tratto di argine del Piovego che doveva tenere falciato con frequenza e sgombro da qualsiasi albero e arbusto, perfino dalla sorgheta, un’erbacea simile al sorgo, in cambio del fieno che ne ricavava (fieno dai profumi meravigliosi) e doveva eliminare la presenza delle talpe. Più avanti negli anni, forzato dalla curiosità, capii l’importanza della cura del territorio: la tana di una talpa nell’argine, insieme alle radici degli alberi, potevano aprire la via all’acqua durante le piene del fiume, creando i ‘fontanazzi’, e successivamente allo sgretolarsi dell’argine. Ho capito inoltre che allo zio non era necessario conoscere le motivazioni tecniche, bensì a lui era sufficiente rispettare le consuetudini perché sentiva che erano giuste.
Avere cura degli argini
Ero arrivato in campagna dai nonni materni per allontanarmi dalle incursioni aeree piuttosto frequenti in città. Cominciavo a conoscere i ritmi che sovrintendevano alla vita del contadino e quanto questi fosse condizionato da quelle funzioni. Le più esplicite di queste funzioni sono il mungere le mucche, il seminare e quindi l’aratura, definire bene il tempo della raccolta dei frutti, intuire le situazioni climatiche, e tante altre. Fra queste, e non la meno importante, il mantenere puliti e adeguati gli scoli dell’acqua sui campi, i fossati, e più importante ancora gli argini dei canali e dei fiumi. Se per le mucche è ben comprensibile l’esigenza della mungitura a ore ben stabilite, così come la semina e il raccolto definiti da millenni di esperienze divenute certezze, per argini e fossi la cosa non mi era altrettanto chiara.
Tutto questo comportava molto lavoro e io mi facevo la domanda: perché tutte queste cure? Cercai in qualche modo di darmi una spiegazione e non trovandola chiesi a mio zio Nino.
Si fa così
La risposta fu: “Si è sempre fatto così, tutti lo fanno e inoltre se il messo comunale passa e non trova in ordine ci richiama”. Evidentemente si è subito accorto che la risposta non era tale da mettermi a tacere, perciò, quasi sottovoce, cominciò col dirmi: “Io non l’ho mai visto ma mi è stato detto dal nonno, che gliel’aveva detto suo padre, che una volta l’argine si era rotto durante una piena e sembrava che la causa fosse stata una tana che attraversava lo spessore dell’argine e quando l’acqua, alzandosi, entrò nella tana, uscì dalla parte opposta e a mano a mano che cresceva faceva aumentare la velocità di uscita dal foro allargandolo sempre di più fino a far crollare l’argine stesso”. Pertanto era cura di tutti controllare che non ci fossero tane di nessun tipo, neanche di talpe, inoltre non si doveva permettere ad alberi e arbusti di crescere sugli argini, perché la loro presenza poteva essere di impedimento al regolare scorrere dell’acqua specialmente nei momenti di piena. Qualche famiglia molto povera, tutti eravamo poveri, veniva aiutata a tenere puliti i fossi, mentre qualche fannullone, erano pochissimi, era oggetto della disapprovazione di tutti. La risposta dello zio non era tecnica, forse non lo sapeva neanche lui bene il perché, bensì solo di rispetto delle consuetudini.
Anche il taglio dell’erba sugli argini doveva costituire un tappeto erboso omogeneo e robusto affinché l’acqua non riuscisse a sgretolare il terreno sottostante. Ricordo che spesso nascevano delle piante di sorgheta, una specie di sorgo selvatico, che in pochi giorni si alzava di metri, quindi si doveva subito intervenire, non a tagliarla però, ma a estirparla ripristinando attentamente il tappeto erboso.
Il profumo dell’erba
Dell’erba degli argini ho un ricordo di profumi incredibili, vorrei essere un botanico per descriverli. Li cito così come li chiama il contadino: piselli selvatici, piccole piantine rampicanti dai fiorellini variopinti con piccoli bacelli, la mentuccia di varie forme e profumi, la limonella, qualche cardo blu intenso, radicchio selvatico dai fiori azzurri, convolvoli e una miriade di piantine d’erba dalle forme diverse e a volte strane.
Il cacciatore di grilli
Per conoscere questo mondo vegetale o meglio per imparare a conoscerlo, che è cosa ben più interessante, è necessario diventare cacciatore di grilli. È una tecnica fatta di mano leggera e tanta pazienza. Consiste nell’avere tempo libero di cui disporre senza preclusioni, innanzitutto mentali: “perdo tempo”, voglia di stare sdraiato per terra incurante di qualche formica che gironzola sul naso e armato di una pagliuzza sottile, infilarla nella piccola tana del grillo muovendola piano piano come a voler fare il solletico sotto il ventre del grillo. Non è detto però che il grillo sia in casa, perciò dopo qualche tentativo si dovrà cambiare tana. Se invece l’ospite è in casa e si lascia solleticare, lo vedi risalire dalla tana e affacciarsi all’uscita. A questo punto la situazione è delicata, infatti spesso torna indietro e si rintana. Con maggior delicatezza si continua ad agire con la pagliuzza e finalmente il grillo esce del tutto dal foro, con un rapido movimento della mano libera si prende il grillo senza schiacciarlo, anzi consentendogli di muoversi e farti il solletico al palmo della mano chiusa. Si mettevano allora in un barattolo e si portavano a una destinazione meno idilliaca, alle galline.
È proprio in questi tempi di paziente osservazione ravvicinata che lessi nel dettaglio il variegato tappeto erboso fatto di specie diverse di fiori, di forme e colori spesso imprevisti, il trifoglio pratense, la magnifica nigritella e tantissimi altri. A confrontarlo con l’erbetta ben rasata dei prati delle case di città sembrano provenire da mondi diversi. Questa si chiama anche nostalgia.
La pulizia dei fossi
Ora parlo dei fossi. Sono di diverse categorie: i più minuscoli sono dei semplici scoli che raccolgono le acque superflue di filtro tra campo e campo, hanno lo scopo di far sì che l’acqua non ristagni annegando le radici delle piante. Infatti alle testate del campo, che sono le parti più basse dello stesso, le piante sono di solito più piccole, pallide e rade, proprio perché l’acqua scola dal centro del campo che è la parte più alta verso le testate, accumulandosi se non c’è un buon drenaggio. Quando questo scolo è pieno, tracima in un fosso più profondo, che a sua volta è collegato a un canaletto interpoderale che scola quindi in un canale vero e proprio. Sono questi che devono essere tenuti in ordine per le loro funzioni fondamentali: di drenaggio, quindi della profondità voluta; di contenimento, per fronteggiare una pioggia improvvisa e copiosa; di evacuazione rapida dell’acqua per evitare tracimazioni quindi inondazioni. Pertanto ciclicamente bisogna togliere i depositi di terra di decantazione delle acque, il fogliame, gli arbusti, eliminare le piante che crescono sul greto del fossato. Bisogna favorire invece la piantumazione di alberi sul bordo del fosso, che con le loro radici ne consolidano le sponde. Naturalmente gli alberi devono essere di dimensione e tipo idonei a non danneggiare le coltivazioni adiacenti, con l’ombra che toglie l’apporto solare. In certi posti particolarmente ventosi, i filari di alberi lungo i fossati hanno lo scopo di moderare la forza del vento che altrimenti danneggerebbe le colture.
Il mondo dei fossi
Al di là delle funzioni strutturali dei corsi d’acqua, di cui si è detto, c’è un aspetto ludico dell’ambiente che si crea lungo di essi: la presenza del pescegatto, oggetto di lunghe cacce col retino, i più fortunati con la canna da pesca, dato che non tutti noi ragazzini avevamo accesso a certi attrezzi. La caccia alle rane avveniva invece alla sera al buio con la lampada ad acetilene e l’ancoretta maneggiata con maestria da mio zio, si trattava di una piccola àncora a tre braccia di cinque centimetri appesa a un filo e questo a un bastone. Io tenevo la lampada per individuare la rana, lo zio faceva dondolare l’àncora sopra la rana e quando il dondolio portava l’ancoretta vicina alla rana, lo zio la faceva scendere e l’agganciava. Erano momenti di tensione nel silenzio più assoluto. Lo stesso lavoro lo facevano di giorno le garzette con il loro lungo becco: immerse nell’acqua sulle lunghe gambe ne vedevi la testa guizzare nell’acqua, tornare fuori con il ranocchio tra il becco e le osservavi ingoiare il malcapitato, volgendolo verso l’alto con uno strappo del collo. Tornando ad aspettare.
Che dire poi dei nidi da depredare? Ho già detto in un altro momento di come mia nonna cucinava le mie prede e di come sorvegliavo le capinere quando cominciavano a costruire il nido e poi la covata, la schiusa, la crescita dei pulcini. Qui subentrava l’esperienza tramandata da mio nonno che mi indicava i segnali da guardare per capire il momento in cui i pulcini erano pronti a volare in modo da anticiparli con la cattura. Ora capisco la tragedia di quella madre a vedersi portare via i figli, ma allora era la conquista del cacciatore.
Durante la primavera, l’estate e l’autunno, lungo i fossati era il luogo di raccolta delle specie più diverse: bruscandoli, porri selvatici, asparagelle, cime d’ortica, radicchi selvatici e tutta quella serie di verdure da cucinare di cui non conosco il nome ma che mia nonna mi aveva indicato e che raccoglievo. I frutti di siepe: amoi, stropacui, fragole, lamponi, more bianche, nere e rosse, certe erbe dal gusto asprigno/dolciastro, la lucamara, una sottile liana legnosa che assomiglia ai bastoncini di liquirizia e altre specie che il tempo mi fa scordare; ricordo che andare per fossi era un continuo masticare e sputare semi o parti legnose ben succhiate.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!”, Libro I, pagina 54