Il 13 maggio, nei primi giorni di riapertura dopo le restrizioni per la pandemia, un ristoratore diceva che il distanziamento nel locale per garantire protezione dal contagio non avrebbe permesso di riaprire, in quanto non avrebbe potuto ospitare clienti sufficienti per essere competitivo. Su questa intervista ho scritto un raccontino sarcastico-sadico che dimostrava l’impossibilità economica di tenere in vita le attività, salvo che alle condizioni da me descritte nel Libro II, numero 180, “Soluzione?”. Le mie figlie in veste di redattrici si erano allora rifiutate di pubblicarlo perché ritenuto di sapore disfattista?
In questi giorni di fine giugno un ristoratore intervistato insieme a molti altri denunciava che la presenza giornaliera di clienti si conta sulle dita delle mani. Non posso che concludere: come volevasi dimostrare…
Post scriptum: i nostri regnanti nelle loro elaborazioni macroeconomiche hanno valutato questo aspetto del problema? Inoltre, il permanere del virus per un tempo incerto, ma certamente lunghi, costringe i cittadini a essere formiche e a risparmiare per tempi più difficili, pertanto è improbabile che la spesa voluttuaria aumenti. Questo vuol dire che non si possono tenere aperte attività con aiuti distribuiti a pioggia, destinati comunque a esaurirsi, ma bisogna affrontare la realtà.
Tocca ai politici indicare soluzioni alternative. I miei nonni emigravano, i montanari d’inverno scendevano in città a vendere “peri cotti caldi” per le strade, o mestoli di legno, o piccole sculture intagliate su legno. Più volte ho ribadito che c’è una soluzione, che però ha un grosso difetto: ha dei tempi lunghi e non giova per le prossime elezioni!
E sarebbe: attraverso la scuola preparare le prossime generazioni alle nuove professioni. Mentre l’attuale generazione che ha vissuto da cicala ne deve pagare lo scotto.