I Giardini Menara: un paio di chilometri fuori città percorsi tra ville e giardini lussureggianti e si arriva al parco, meta per turisti. Solo la fantasia può portarti a immaginarlo quale luogo di delizie e piaceri per i regnanti di un tempo. La grande vasca, oggi piena d’acqua fangosa e grosse carpe che aspettano, sul bordo vasca, che i turisti istruiti dalle guide del luogo, diano loro del cibo era un tempo un laghetto luogo di refrigerio dove, leggenda vuole, il sultano gettava la sua amante il mattino dopo la notte di piacere.
Al di là del lato romantico dobbiamo riconoscere l’ingegno arabo. L’enorme vasca, che risale al XII secolo, è alimentata, come anche il vasto palmeto, da una fitta rete di condutture sotterranee collegate a pozzi, i Khettara, che attingono acqua dalle falde freatiche con un gioco di pendenze che portano l’acqua in superficie. Rientriamo in città ed eccoci alla Koutoubia, la grande moschea. Il suo minareto è opera armonica, simbolo di una civiltà, la ispano-moresca, raffinata e colta. Attraversiamo la Bab Agnaou, subito dopo la moschea della Kasbah o El Mansour, quindi le tombe Saadiane, strettamente rinchiuse da alte mura. Le cappelle funerarie dei sultani di questa dinastia sono un complesso architettonico notevole per le linee costruttive e le delicate decorazioni.
Attraverso il Mellah, il quartiere ebraico, con le finestre proiettate sulla strada e costruzioni tipiche dell’Andalusia, si arriva a Dar El Bedi, l’incomparabile enorme palazzo, 370 stanze, distrutto dai conquistatori. In questa zona ci sono zuccherifici e attorno una miriade di piccoli magazzini che commerciano lo zucchero. Da qui si arriva alla Place Jemaa el Fna attraversando il Suk, più ampio e meno sporco di quello di Fès. Eccoci alla piazza, uno spazio irregolare punteggiato di capannelli di persone, chi ad ascoltare un cantastorie, o contastorie, incantatori di serpenti, venditori ambulanti di cose varie. Passiamo in fretta, riservandoci di vederla di sera, ben più viva e animata. Si mangia al Café de France sulla terrazza che dà sulla piazza. Il cous cous è insipido, non si mangiano le verdure crude, c’è il timore per la salmonella, la pulizia non è sovrana.
Ci incamminiamo dentro la Medina un po’ alla cieca, le stradine sono un po’ più larghe, i negozi un più poveri, laboratori e botteghe le più diverse: falegnami, idraulici, fabbri, sarti etc. Ci siamo persi, con l’aiuto del sole ci riorientiamo: chiedere informazioni è difficile e da non fidarsi. D’improvviso siamo alla Madrasa di Ben Youssef. Deliziosi gli intarsi in cedro e gesso: interessante perché ha funzionato fino agli anni ’60, conteneva 1000 studenti in 132 stanzette, incredibile.
Rientriamo attraverso un Suk variopinto, vivace, eterogeneo, sporco, puzzolente. I macellai, o meglio i venditori di carne e frattaglie, normalmente di ovino, si alleano alle mosche per rendere l’ambiente rivoltante… Entusiasmante invece per gli odori, i profumi, i colori e l’architettura nella disposizione delle merci al mercato delle spezie, della frutta secca, dei colori per l’henné, delle foglie secche per lavare i capelli e altre cose sconosciute a rendere ancora più misterioso di tutto. Alzando gli occhi al piano superiore si vedono le merci in deposito: un tempo quei locali erano adibiti ad ospitare i carovanieri mentre al piano terra restavano i cammelli. Guardando attraverso gli usci socchiusi si intravedono in uno stato di abbandono pietoso, pur essendo abitati, dei meravigliosi cortiletti, o meglio patii, circondati dalla casa a tre o quattro piani, con un porticato/poggiolo con un parapetto in legno finemente lavorato. Sono le tipiche case andaluse.
Eccoci finalmente in Place El Fna. Ora è animata, è tutto un sovrapporsi di gente che cammina, ascolta, mangi,a guarda, vive. Qua l’incantatore di serpenti, il giocoliere con le scimmie, il cavadenti con decine di dentiere e migliaia di denti estratti in bella mostra, il cantastorie, il contastorie con attorno vecchi e giovani accucciati ad ascoltare, l’imbonitore che vende misture medicali con scheletro e organi interni in plastica a mostrare dove agiranno i suoi intrugli. Ed ancora una teoria infinita di banchetti di cibarie cucinate al momento, con piatti e posate che passano da un cliente all’altro. Ad un tratto, tra il fumo dei bracieri per la cottura dei cibi, si accende una luce incantata, è il minareto della Koutoubia che al sopraggiungere del buio viene illuminato. Un incanto: i disegni delle sue sculture formano una miriade di ombre. Raccontano la storia di questo mondo così diverso, così lontano da noi uomini razionali.
Riusciremo a salvaguardare questi mondi incantati sparsi nel nostro piccolo pianeta?
Toni Schiavon, “Un giorno a Marrakech”, “Minuterie Letterarie”, pagina 33.