Era figlia della zia Giulia, sorella maggiore di mia madre. Era più grande di me di dieci anni, perciò i fatti che vado a raccontare iniziano che aveva diciassette anni. Era bravissima nel mestiere di sarta, aveva un laboratorio in proprio con tre, a volte anche più collaboratrici. Ricordo che venivano clienti anche da Padova, operava in casa di mio nonno a Noventa Padovana dove viveva con la zia Giulia; non aveva il papà.
La visita del Duce
Il primo ricordo è del 1938. La data è certa perché si riferisce a un avvenimento importante avvenuto a Padova: la visita del Duce.
Per l’occasione la Delia si era fatta la divisa di “giovane fascista”, gonna nera, camicia bianca con mostrine di identificazione e appartenenza al Partito fascista italiano. La notorietà del partito era al massimo in quel periodo per le molte realizzazioni sociali: l’Impero=Libia, Etiopia, Somalia, Eritrea, il Dodecanneso; la bonifica dell’Agro Pontino; la fondazione del Sindacato; gli aiuti alle famiglie numerose per incrementare la popolazione. Tutto questo portava consenso dalla maggior parte degli italiani e dai giovani in particolare. Certo non si parlava delle prossime Leggi Razziali e della crescente dittatura, ai giovani bastavano le feste, le parate, le divise, i canti marziali. Nell’aria c’erano già i venti di guerra.
Ricordo il mattino che partirono in gruppo su una carretta, era un carro con un unico pianale utilizzato normalmente per il trasporto del fieno, trainato da un cavallo. Tornò a tarda sera, io ero già a dormire. All’indomani, tutti riuniti sotto il grande melo, noi di casa e molti dei vicini, la Delia con le amiche a rac- contare della folla in città e del raduno in Prato della Valle, le squadre marcianti in parata in molte file affiancate, le fanfare, le autorità, il Duce.
Forse un paio di anni più tardi la Delia mi chiese di accompagnarla in bicicletta a fare una commissione. Partimmo e andammo a casa dei Volpato, la famiglia del suo fidanzato; qui trovammo la sorella di lui che ci aspettava con un gran mazzo di fiori, che dovevamo portare al suo fidanzato. Il mio compito era proprio quello di consegnare i fiori.
Partimmo per Torre, distante quattro o cinque chilometri, tutta la strada era di ghiaino con molte buche, quindi polverosa. Giunti nelle vicinanze della casa del fidanzato della quasi cognata della Delia, presi il mazzo di fiori e andai a piedi fino alla casa, la ricordo ancora, era una casetta uguale a casa nostra alla Stanga, quattro stanze con al centro l’entrata che fungeva da vano scala per le stanze superiori. Venne ad aprire un uomo che aveva fra le gambe quattro bambini, molto più piccoli di me, al quale consegnai i fiori. Scoprii così che l’uomo era vedovo con quattro figli. Non ricordo come finì la storia, ma fui sorpreso che una ragazza così giovane potesse sposare un uomo vecchio con tanti figli.
Solfato di rame
Siamo ora nel 1944. La domenica mattina vennero dalla Delia due coniugi di Padova in bicicletta per fare la prova di un vestito per la signora. Natural- mente lo zio Nino ha offerto della verdura e qualche frutto e poi scambiarono qualche notizia sulla campagna. Lo zio espresse la preoccupazione per la mancanza di solfato di rame, che serve per proteggere le viti dai parassiti.
Il marito, evidentemente persona colta, suggerì di fare il solfato di rame in casa, proponendosi di trovare il rame. Dette allo zio il compito di procurarsi dell’acido solforico. La domenica successiva i coniugi tornarono forse per pren- dere il vestito confezionato dalla Delia e per portare il rame promesso. Non so descrivere la mia sorpresa quando lo zio aprì il pacco contenente il rame e rovesciò il contenuto sul tavolo di cucina; ne uscirono migliaia di monetine da 5 e 10 centesimi. Ho saputo dopo un po’ di tempo che le monete provenivano dalle elemosine che i frati raccoglievano durante le funzioni religiose, scam- biandole poi con i contadini in cambio di cibarie.
Il giorno stesso lo zio versò le monete e l’acido in un contenitore, che coprimmo per bene in modo che i miei cuginetti non potessero arrivarci e bruciarsi con l’acido. Naturalmente io andavo una volta al giorno a guardare le monetine che diventavano sempre più sottili, fino a bucarsi, facendo scomparire la faccia del Re Vittorio Emanuele III. Contemporaneamente comparivano cristalli verdi/blu. Per quell’anno le viti furono salve.
Radio Londra
Sempre nel 1944 un militare infermiere, era di Porto Tolle, di stanza a Ponte di Brenta, faceva la corte alla Delia e qualche sera veniva in casa dei nonni con la scusa di ascoltare Radio Londra. Questo io non lo dovevo sapere, perciò mi mandavano a letto. Naturalmente dopo essere salito in camera quatto-quatto, scendevo in caneva e attraverso un finestrino che dava sul laboratorio della Delia, guardavo e ascoltavo non visto Radio Londra come gli adulti.
Naturalmente alla fine delle trasmissioni con i suoi messaggi speciali “La tortora piange”, tornavo di sopra e mi appostavo nel corridoio del granaio dove dormivo e aspettavo che il militare andasse via accompagnato dalla Delia per guardarli quando si baciavano.
Pippo
Sempre nel 1944 la Delia mi incaricò di portare un vestito da lei confezionato a una sua cliente al Dolo. Erano più di una decina di chilometri. Il problema non era la distanza, né trovare la casa della cliente che era proprio davanti alla fermata del tram che congiungeva Padova a Venezia.
Il problema era ‘Pippo’, l’aereo da caccia che girava continuamente sopra il Piovego, il canale che congiungeva il Brenta a Fusina, all’inizio della Laguna, il famoso canale scavato dai veneziani che univa la Laguna all’entroterra, in particolare con Padova. Lungo questo canale sono sorte le famose Ville Venete, prime fra tutte “La Malcontenta” e la “Villa Pisani” di Stra.
Questo canale era percorso da barche atte al trasporto merci, uomini e mezzi, quindi prede di Pippo. Proprio pochi giorni prima Pippo aveva mitragliato e incendiato un treno davanti a villa Mion a Noventa Padovana, a pochi passi dalla casa dei nonni.
Pertanto per raggiungere il paese di Dolo non ho potuto seguire la strada normale parallela al canale, bensì internarmi fra le campagne per strade che non conoscevo, allungando notevolmente il percorso. Ricordo che un paio di volte, a intuito, mi sono avvicinato al canale per essere sicuro di andare nella giusta direzione. Sono arrivato a destinazione a pomeriggio inoltrato, la cliente mi ha dato un panino e acqua e sono ripartito subito per la strada normale lungo il canale.
Da qualche mese seguivo le operazioni di Pippo e mi ero accorto che verso sera, un paio di ore prima del buio, spariva dal cielo, ripresentandosi qualche ora dopo l’imbrunire per proseguire l’attività fino all’alba.
Ee pesse da piè
Una moglie si lamentava dicendo che il marito la trattava come una “pezza da piedi”, senza rendersi conto di quanto lei fosse indispensabile.
Questo mi ha riportato agli anni quaranta del secolo scorso in campagna, ma anche per qualche tempo in città. In campagna, appena il tempo lo permetteva, si andava a piedi nudi e in pochi giorni crescevano i calli sotto la pianta dei piedi. D’inverno il problema erano i geloni, dato che non avevamo scarpe ben foderate e calzini di lana. La lana disponibile era grezza, sembrava di calzare calze guarnite di spilli.
La scarpa più comune, dopo gli zoccoli di legno, erano le sgalmare: tomaia di pelle grezza con suola di legno. Piuttosto rigide, costringevano a un’andatura strana e rumorosa (nota: il marito di mia cugina Delia era un costruttore di zoccoli, anzi tutta la sua famiglia paterna, cinque fratelli, svolgevano questa attività). Per renderle sopportabili bisognava avere calzetti di lana molto grossi non certo disponibili per tutti, ecco allora che entravano in scena ee pesse da piè, normalmente in uso in campo militare, di cui avevo sentito parlare dai vecchi del paese. Si trattava di avvolgere i piedi con stracci di recupero, possibilmente di lana, in modo da interporre tra piede e sgalmara uno strato coibente che trattenesse il calore. L’operazione di avvolgimento era però complicata perché se mal eseguita procurava certe vesciche che, complice il freddo, difficilmente guarivano. Prima di imparare pagavi un bel po’ di dazio.
Ricordo che andando in montagna nelle zone di guerra del ‘15-‘18 ho trovato una scarpa, alla fine di una lingua di un piccolo ghiacciaio, con dentro tracce di una pessa da piè.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!”, Libro I, pag. 86