Ero per mano di mio papà, mi teneva con la mano destra la mano sinistra, lui camminava forse normalmente, io però ero costretto a un piccolo trotto. Era il 1936, non era né freddo né caldo, non so perché ho sempre pensato fosse primavera. Eravamo appena usciti di casa, dove sono nato, in via Goldoni, alle spalle del muro a nord della Fiera Campionaria. Stavamo attraversando il gran piazzale di ghiaino spezzato delle strade di allora. Andavamo verso la città. A destra la costruzione del nuovo, allora, Foro Boario di cui il piazzale era il luogo di mercato di bovini, cavalli, fieno, paglia, sementi e altri prodotti per l’agricoltura. Infatti aveva anche la funzione di Consorzio Agrario. A sinistra i Magazzini Generali all’interno dei quali entravano i carri ferroviari che uscivano dalla vicina ferrovia spinti dalla maseneta, condotta dallo zio Mario.
Ebbene, eravamo a metà del piazzale, non ricordo ci fossero altre persone, e d’improvviso un lacerante urlo di sirene che purtroppo sentirò con paura dopo pochi anni durante la guerra. Mi fermai di botto, non so se impaurito o sorpreso, e chiesi: “Papà perché suonano le sirene?”.
“È la fine della guerra d’Etiopia” mi disse. Me lo disse senza enfasi, quasi a dire come la notizia fosse insignificante.
Dopo anni, anzi molti anni, capii che mio papà non condivideva l’avventura d’Africa dell’Italia, come non ha mai condiviso la seconda guerra mondiale. Nella prima guerra mondiale era stato arruolato nei servizi di trasporto feriti in città, aveva sedici anni. Invece per me, avevo cinque anni, la guerra di Abissinia aveva spalancato la fantasia. Dirò perché.
La Domenica del Corriere
La zia Norma, vedova di guerra, aveva l’osteria “Alla Rampa” incastonata tra il muro nord della Fiera Campionaria, la ferrovia a ovest divisa solo da via Goldoni, a est il Foro Boario, a nord casa mia, per cui ero spesso in osteria.
Qui trovavo i giornali, in particolare “La Domenica del Corriere” illustrata dalla mano felice di Achille Beltrame che con i suoi disegni di copertina mi faceva sognare a occhi aperti. I nostri soldati, vestiti color cachi con il casco coloniale di ugual colore, combattevano contro gli etiopi neri e nudi, solo con il perizoma, con le lunghe zagaglie che emergevano e sparivano dalla boscaglia di cespugli spinosi di acacia. Di settimana in settimana seguivo l’evolversi dei fatti attraverso quei magnifici disegni.
Non sapevo leggere. Appena qualche avventore dell’osteria capitava a tiro mi facevo leggere almeno le didascalie e qualche volta anche alcune righe delle notizie dal fronte. Tanta era la suggestione degli avvenimenti d’oltremare, così si diceva dell’avventura imperiale in terra d’Africa. Oggi penso con ironia che noi italiani volevamo portare la civiltà a un popolo la cui civiltà era radicata fino alla regina di Saba.
Una Dama Nera
Proprio in quel periodo ricordo d’aver visto, in zona della Chiesa della Pace, una donna di carnagione nera, alta e maestosa, dai capelli neri folti e crespi, con un vestito dai colori sgargianti di forma inconsueta, anzi incredibile. Il viso era bello e dolce, le forme del corpo esuberanti.
Fu la prima persona non bianca che ho visto se non sui giornali. Ho chiesto a mia mamma chi fosse, da dove venisse, dove andasse. Mi disse che era una donna abissina portata in Italia da un ufficiale che aveva combattuto in Africa. La rividi altre volte penso fino agli anni ’40, in zona Portello dove andavo alla scuola elementare.
Nell’ampia cucina dell’osteria verso le sei di sera e fino all’ora di cena si ri trovavano spesso degli avventori abituali che tra un bicchiere di vino e uno spuntino di pesce fritto o uovo sodo dibattevano gli avvenimenti del giorno e quindi anche quelli relativi alla guerra d’oltremare. Per me era meglio che ascoltare le favole dei sette capretti o del gatto con gli stivali. In questi piccoli consessi nei primi anni di guerra sentii parlare dei massacri in Croazia, della conquista della Grecia, della battaglia di Tobruk in Cirenaica, dei bombardamenti su Malta, delle tradotte di truppe e mezzi bellici tedeschi verso i porti del sud diretti in Africa e di molto altro. La mia presenza era così consueta che penso neanche mi vedessero e quindi parlavano piuttosto liberamente.
Racconto di un mio viaggio in Etiopia nel 2012 qui: Perigeo. Etiopia, 2012
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!”, Libro I, pag. 74