Libro I Mi Sono Sbottonato!

Ingrassare i carri

5 Maggio 2020

Siamo a febbraio del 1944, ero sfollato dalla città alla campagna, dai nonni materni, al sicuro dai bombardamenti. I miei genitori e fratelli venivano ogni sera in tram a Noventa dalla zia Ida a dormire. Si erano preoccupati di mettere al sicuro almeno uno della famiglia, il primogenito! Forse anche perché ero abbastanza grande da lavorare, cosa che ho fatto con grande volontà proprio per essere di aiuto, eravamo molto poveri come ho già detto in altra occasione.

Un giorno mio nonno, uomo di poche parole e scarsi sorrisi, mi dice: “Tonin dopo dovemo ingrasare i careti”. Non ho sollevato domande, tanto avrei avuto come risposta un secco: “Dopo te vedarè”. Ho tirato sul seese (l’aia) un paio di quei carri, il grosso stangon, un palo lungo almeno quattro metri del quale più volte mi ero chiesto la funzione senza avere risposta, e due cavalletti. Intanto pensavo al verbo ‘ingrassare’.

Il pastone per ingrassare le oche

A novembre avevo aiutato la zia Giulia a ingrassare per le feste di fine anno e per le onoranze al marchese Manzoni quattro piti (tacchini), quattro oche, quattro arne (anatre), quattro caponi (galli castrati mesi prima alla quale operazione la zia Giulia mi aveva fatto assistere perché diceva che era bene saper fare tutti i lavori).

L’operazione di ingrassare consisteva nel preparare dei pastoni di crusca, farina, verdure, erbe selvatiche e ‘lenti’ che sono una specie di alghe che crescono sul filo dell’acqua dei fossi, che venivano sminuzzate e ben amalgamate. Con questo secchio pieno in fianco, zia Giulia si sedeva su un panchetto e io prendevo uno dei malcapitati animali di cui sopra dal pollaio, non vi dico la battaglia per prenderli, e glielo portavo. La zia stringeva il corpo del malcapitato tra le gambe in modo che non battesse le ali, con una mano teneva la testa e contemporaneamente con il pollice e l’indice ne teneva il becco aperto. Con l’altra mano prendeva un pugnetto di pastone e lo infilava in gola e poi con un dito spingeva il bolo in fondo alla gola, quindi dall’esterno accompagnava il bolo giù giù fino alla ponga, lo stomaco degli uccelli (da cui deriva “te gheto impongà” per dire che hai mangiato a dismisura).

A proposito di pastoni, lo zio Nino ingrassava i torelli prima di venderli al macellaio con pastoni a base di crusca, mais macinato grossolanamente, vinacce, che erano il deposito di filtraggio del vino dopo la fermentazione. Anche in questo caso lo zio metteva in bocca del torello una specie di imbuto a foro largo, nel quale io versavo la brodaglia a base di alcool. Dopo mezz’ora cominciava la danza del torello inebriato!

Una volta mi è successo di portare alla zia un’oca che lei aveva già impongà, per fortuna lei le conosceva per nome. Mi disse: “Sitto insiminio?” (sei scemo), “no te vedi che ea xe eà stramacià” (a chiazze di colore diverso) “vuto che ea sofega?” (vuoi che la soffochi). Quindi, quando il nonno mi disse di ingrassare i carri, non sapevo come correlare i due fatti!

Dare il grasso ai carri

Si mettevano dei tappi sotto le ruote del carro perché non si muovesse. Con lo stangon passato sotto l’asse del carro e appoggiato su un cavalletto di misura idonea a mo’ di fulcro, si alzava il carro di pochi centimetri e si metteva sotto lo stangon un appoggio per mantenerlo in posizione. A questo punto si sfilava la ruota, si cospargevano di grasso l’asse e il foro in abbondanza, si rimontava la ruota, si metteva in posizione il chiodo fermaruota con il relativo anello di sicurezza. Si toglieva lo stangon e si procedeva con le ruote di tutti gli altri carri. A questo punto avevo capito cosa voleva dire ingrassare i carri! Ho capito anche, molti anni dopo, l’importanza della manutenzione preventiva nel mondo della meccanica e non solo. Anche del proprio corpo e mente forse dirò qualcosa. Forse per mancata manutenzione preventiva oggi sto pagando…

Il cavallo morto

Era metà mattina, stavo spandendo l’erba appena falciata dallo zio Nino sotto i filari del vigneto. Era un prato spontaneo costituito da una miriade di essenze diverse e quindi con fiori e profumi a volte insoliti. Erano gli odori della campagna che a me piacevano. Il mio compito era di stendere l’erba in modo che si essiccasse e diventasse fieno da accumulare nei fienili per l’inverno. D’improvviso il rombo di un aereo in picchiata e il crepitare della mitragliatrice. Il rumore proveniva dalla zona del ponte sul Piovego, il canale che congiunge il Bacchiglione con il Brenta, a Noventa Padovana. Altre volte le barche che stazionavano a monte del ponte erano state mitragliate perché si riteneva trasportassero materiali bellici. Preciso che il ponte è parte di un sistema di cambio di livello dell’acqua del canale allo scopo di regolamentare la bonifica idraulica del territorio.

Dopo qualche tempo passò un nostro vicino in bici portando la notizia che il rombo dell’aereo aveva fatto imbizzarrire il cavallo di un nostro conoscente che transitava sull’argine, facendolo cadere nel canale con il carretto e il carico di sacchi di granaglie che trasportava.

Naturalmente sono partito di corsa verso l’argine lontano qualche centinaio di metri e così ebbi modo di vedere il cavallo annegato e il carretto che galleggiavano al centro del corso d’acqua trasportati a valle dalla corrente. Gli occhi aperti del cavallo sembrava chiedessero aiuto. Più tardi ho saputo che avevano recuperato il tutto alla confluenza del Piovego con il Brenta.

Quello che mi è rimasto impresso è l’innaturale posizione del cavallo fra le stanghe del carretto che invece sembrava proseguire il suo andare sul filo dell’acqua come fosse sulla strada. Il manto bianco maculato di grigio del cavallo era bagnato e luccicava al sole. Era tutto insolito.

Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!”, Libro I, pag. 49

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