La Shoah. Memoria di un bimbo che nulla sapeva. Sono un uomo che ha vissuto a lungo. Molte cose ho conosciuto, visto, vissuto. Quasi tutte quando le ho incontrate e attraversate non le ho recepite importanti o comunque rilevanti; solo il tempo, che è il sedimentatore di ogni avvenimento, ha lasciato nel vaglio quelle significative, magari solo piccole tracce. Di queste piccole tracce cerco di dare descrizione.
È in questi giorni, nel “Giorno della memoria”, che si parla di avvenimenti
che si svolsero per quanto mi riguarda tra il 1943 e i primi anni della mia presenza in Zedapa. Devo anche dire che fino agli anni ‘60 di questo argomento mi sembrava non si parlasse molto, forse anche per mia disattenzione. Solo ora mi sono imposto di cercare nella memoria qualche indizio.
Soldati in fuga
Il primo racconto che riemerge riguarda una tradotta di soldati prigionieri diretti in Germania. 1943, tardo autunno. Ricordo il buio che arrivava molto presto la sera. Stavamo finendo la cena, papà non c’era. Sentimmo bussare al portoncino di entrata, fui io ad alzarmi ad aprire. Vidi papà e dietro di lui due soldati in divisa; mi sono rimasti impressi i pantaloni a sbuffo e le fasce di stoffa grigio-verde arrotolate fin sopra gli alti scarponi. Avevano l’aria spaurita, incerta. Erano bassi di statura, un po’ tracagnotti, il taglio del viso a me sembrava quello di certe figure del libro di scuola che parlava della Sardegna. Più tardi seppi che erano calabresi. Hanno scambiato con papà qualche parola che io non ho assolutamente capito, era un dialetto davvero incomprensibile. Mamma e papà si scambiarono alcune frasi sottovoce e mamma andò in camera e tornò con alcuni capi di vestiario di papà.
Senza parlare i due soldati si spogliarono della divisa e si rivestirono con gli abiti di papà, lasciando per terra le divise militari. Subito se ne andarono con papà che tornò dopo un paio di ore. Nel frattempo la mamma aveva fatto sparire le divise. Quando papà tornò ci raccomandò di non dire a nessuno, nessuno, ciò che avevamo visto, in particolare a dei vicini di casa che erano ex-fascisti. Dopo qualche giorno nell’osteria di zia Norma ho raccolto delle voci dagli avventori che parlavano di una tradotta militare carica di soldati italiani prigionieri dei tedeschi diretti in Germania. Una sera ho chiesto a mio padre se i soldati venuti in casa nostra fossero fuggiti da qualche treno. Mi guardò sorpreso e volle sapere dove avevo avuto quella notizia. Ho così riferito delle voci raccolte, papà volle sapere se erano presenti due miei zii che sapevo essere simpatizzanti per i fascisti. Penso che mio padre fosse davvero preoccupato per il divulgarsi di queste notizie. Sono però riuscito a farmi dire dove li aveva portati, erano stati nascosti da dei contadini, i Destro e i Dal Santo, nelle stesse case che ci ospitarono, nei mesi successivi, durante i bombardamenti aerei, nelle loro stalle.
Nel 1964, ormai sposato con quattro figli, abitavo in Città Giardino, al n. 10 di via Marco Polo. Un pomeriggio, rientrato dal lavoro, parcheggiata l’auto dinanzi al garage, mi fermo a guardare il giardiniere che stava potando delle piante, lo avvicino per scambiare due parole, questi alza il volto e mi guarda. Io resto allibito, era uno di quei due soldati, solo invecchiato, non molto, lo stesso dialetto incomprensibile, la stessa tristezza negli occhi. Naturalmente non mi ha riconosciuto. Non sapevo proprio come fare per far memoria di quanto accaduto in quella lontana sera del ’43. Non ricordo come, con che parole sia avvenuto il riconoscimento, mi abbracciò, quasi piangeva. Non l’ho più rivisto.
Un nemico
1945, forse aprile. Ero in campagna dai nonni materni. Ero solo fra i campi a una cinquantina di metri dall’argine sinistro del Piovego, un ramo del Bacchiglione che lo congiungeva con il Brenta. Sopra l’argine, in direzione di Stra, c’era un soldato tedesco che transitava. Da giorni altri erano passati, sempre nella stessa direzione, soli o in piccoli gruppi. Questo era vestito solo di pantaloni e una maglia di flanella bianca, evidentemente aveva ceduto il resto per un po’ di cibo o era stato derubato. Alla cintola aveva una baionetta, tedesca appunto. D’improvviso da un fossato uscirono quattro ragazzotti, che conoscevo, i miei zii li avevano definiti i partigiani dell’ultimo momento, che si avvicinarono al soldato e lo spintonavano. Non sentivo cosa dicevano. Il soldato non reagì. Dopo qualche spintone gli tolsero la baionetta e tornarono verso il fossato. La scena mi lasciò l’amaro in bocca, forse perché pensavo a quanta strada e a quanti pericoli doveva fronteggiare quell’uomo allo sbando o forse perché quei ragazzotti mi erano particolarmente antipatici per le bravate che facevano nei dintorni.
In quei giorni di aprile-maggio del 1945 frequentemente si vedevano uomini che sembrava vagassero, erano il dissolversi degli eserciti. Soli o a piccoli gruppi, quasi a sostenersi a vicenda con il miraggio della propria casa, dei propri cari, con nel cuore il mistero dell’incoscienza della guerra. Anche i vincitori, sia pur forti della loro condizione, sembravano fuori posto, anche loro facevano i conti con “il mistero dell’incoscienza della guerra”.
Il treno della deportazione
Ancora di un treno parla un altro racconto. È solo un lampo di memoria perché fu solo uno sguardo di sfuggita. Ero sempre nell’osteria della zia Norma e avevo captato, adopero questa insolita parola per sottolineare quanto poco chiara fosse per me la notizia, un gruppo di avventori parlare sottovoce di un treno merci fermo sui binari, i più lontani dall’osteria, dai quali si udivano delle voci. Siccome spesso passavano tradotte cariche di camion, carri armati e truppe non avevo dato importanza alla cosa. Quando però ho sentito gli avventori parlare sottovoce mi sono incuriosito e sono tornato a guardare il treno. Era quasi buio e si intravedeva solo che i carri avevano gli sportelli chiusi e le voci provenivano dai finestrini posti in alto nelle fiancate dei carri. Altro fatto insolito, nessuno era sceso dal treno e, dopo aver attraversato i binari, era venuto in osteria a prendere qualcosa. Di solito succedeva che i soldati tedeschi scendessero in gruppo per venire in osteria.
Molti anni dopo ho collegato il fatto alle deportazioni. Faccio ora un salto di qualche anno, è il 1946 e io sono pronto per cominciare a lavorare. Non c’erano molte opportunità. Mia madre, tra le altre persone, interpellò don Bonin, il parroco, il quale disse che avrebbe parlato con don Fortin, che sapeva avere la possibilità di far assumere dei ragazzi in Zedapa. Dopo qualche giorno fui assunto. Ho cercato di capire perché don Fortin avesse la possibilità di far assumere personale in Zedapa. Seppi che don Fortin era stato in campo di concentramento in Germania insieme con Giorgio Diena, titolare della Zedapa, in quanto ebreo e partigiano. Insieme erano sopravvissuti e tornati. Negli stessi anni vennero assunti alcuni ex internati in Germania con i quali ebbi modo di parlare della loro vicenda. Ne parlavano con reticenza, e molto poco. Spesso erano ammalati perché minati da quei tragici fatti. Giorgio Diena stesso era tornato molto provato nel fisico tanto che, si dice, quella fu la causa della sua tragica scomparsa.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!”, Libro I, pag. 77