Nelle campagne, nel tardo dicembre degli anni 40 del secolo scorso, il freddo aveva già attecchito e la neve cadeva copiosa anche se rimaneva pochi giorni. Dovevamo aspettare gennaio per le nevicate persistenti e i fossi ghiacciati sui quali fare lunghe ore di scivolate e qualche bagno, a causa del sovrappeso quando ci accalcavamo in gruppo sul ghiaccio con le conseguenti sgridate di mia madre accompagnate a qualche legnata con la scopa.
Torno al tema: “Copare el porseo”. Quel giorno, già alle prime ore, con mia zia dovevamo preparare l’acqua calda, molta, essenziale; serviva per lavaggio e spellatura dalle setole dalla carcassa ancora calda di suo perché appena morto. Il lavaggio è fatto per ovvie ragioni igieniche. La spellatura era una operazione per la quale ci voleva una certa maestria e coordinamento: lo zio con il raschietto, un coltellaccio con due manici perciò adoperato a due mani. La zia con un grosso mestolo di rame attingeva da un secchio l’acqua bollente e la versava a ridosso del coltello dello zio che qualche volta protestava perché la zia versava l’acqua sulle sue mani scottandolo. Successivamente l’acqua calda serviva, oltre che al lavaggio esterno dall’animale comprese zampe, orecchie, sgrugno, il lungo muso con froge e labbra, la coda ecc. anche per le parti interne, intestini, metri e metri di budelli di vari diametri per farne salami, cotechini, salsicce, soppresse e la vescica per conservare lo strutto, grasso sciolto a caldo e poi fatto rassodare.
Ora descrivo la preparazione dell’acqua calda. Portavamo il grosso pentolone di un centinaio di litri usato solitamente per fare la “liscia” con la cenere per il bucato una volta al mese, non ci si cambiava d’abito molto spesso allora, con il suo traliccio di supporto sotto il quale facevamo il fuoco. Per alimentare il fuoco si utilizzavano canne di granoturco, le fascine di tralci delle viti. Questi materiali venivano messi a essiccare nel “fassinaro”, che era il luogo dove venivano accatastati i materiali più diversi da utilizzare per fare fuoco sul focolare di casa e come detto per il riscaldamento dell’acqua. Il “fassinaro”, “el paiaro” “el fienie” erano tenuti ben lontani tra loro e dalla casa nel timone degli incendi. L’operazione di lavaggio veniva fatta dentro il “mesoto”. È una grande vasca di legno quadrilunga con le pareti inclinate ad allargarsi, normalmente usato per pigiare l’uva con i piedi. Per l’occasione veniva posto sotto il portico della stalla in modo da poter attaccare a una trave dello stesso una carrucola con la quale alzare la carcassa del maiale per procedere allo squartamento dopo il lavaggio. La carcassa ben lavata veniva issata a mezzo della carrucola passando due ganci tra i tendini dei garreti posteriori mettendo così il “massadore”, l’addetto all’uccisione e squartamento, in condizione di operare. Trattasi di un’operazione complessa di tagli, separazione delle parti, a volte fatto con una particolare accetta, come quella di dividere in due parti l’animale: la testa e la colonna vertebrale in tutta la sua lunghezza dallo sgrugno alla coda. Dette parti separate sono poi destinate al trattamento di conservazione di cui non dirò ora. Volevo dire dell’uccisione dell’animale per rispondere al titolo di questo scritto.
Lo zio entra “nea staea dei porsei”, ce n’erano quattro, con il mio aiuto isolavamo il predestinato, di solito il più grosso, circa 150 kg. Il malcapitato intuiva la fine vicina tanto che non usciva nonostante la porta aperta, ma scantonava. Finalmente legato con un paio di corde veniva trascinato di fianco a una grossa panca piuttosto bassa da consentire il suo ribaltamento, su di un fianco, e in più persone tenuto fermo. Il “massadore” (deriva da ammazzare) postosi dietro la testa della vittima si chinava e piantava un lungo coltello acuminato e ben affilato sotto la gola e tra le gambe anteriori, dando alcuni strattoni al coltello quasi a cercare il cuore. Tutta questa operazione la vedevo da una posizione privilegiata, avevo l’incarico di intercettare il fiotto di sangue che sarebbe uscito dall’estrazione del coltello. Avevo un grosso secchio che tenevo accortamente il più vicino possibile alla ferita. Quel sangue coagulato e fritto nello strutto sarebbe stato un piatto forte per molti pranzi e cene, accompagnato alla polenta, ben salato e pepato. Il maiale che gridava e grugniva possentemente a mano a mano che il sangue usciva si affievoliva fino a spegnersi in un rantolo pietoso. Forse quello era il momento in cui provavo pietà, visto che ci conoscevamo perché gli portavo da mangiare.
Con i conigli l’operazione era settimanale, dipendeva dalle alternative alimentari disponibili. Nel periodo del maiale dovevamo mangiare tutto ciò che non era possibile conservare con la tecnica dell’insaccato con sale e droghe; a questa operazione si dedicava “el saador” (deriva da sale). Le parti da consumarsi al più presto erano molte: i piedi, lo sgrugno, le frattaglie: cuore, fegato, polmoni, rognoni, milza, surrenali, reni, cervello e ghiandole varie, costicine, coda, il sangue rappreso, “ee radaghee” (quel reticolo di grasso che copre il cuore). Torniamo ai conigli: mio padre per macellarli utilizzava il manico del badile, che era piuttosto grosso, e lo appoggiava sul collo dell’animale steso sul pavimento, saliva con i piedi sul legno e lo tirava per le zampe posteriori, un leggero strattone rompendogli il collo. Il tutto si svolgeva in pochi secondi. Lo zio, in campagna, invece aveva un metodo ben più truce: appendeva il coniglio per le zampe posteriori alla rete del pollaio, poi tenendolo fermo per le lunghe orecchie, con un grosso e affilatissimo coltello li tagliava di netto la testa. Per alcuni istanti il coniglio continuava ad arrotare i denti come fanno continuamente. Nota: i conigli sono costretti a strusciare tra loro i denti per consumarli. Infatti nei roditori i denti sono in continua crescita in funzione della loro modalità di alimentazione, cioè rodere sottoponendo i denti al consumo, pertanto il loro rodere a vuoto serve a mantenere l’equilibrio tra consumo e crescita. Certo il taglio della testa, pur essendo altrettanto istantaneo come quello di rompergli l’osso del collo, è decisamente più cruento proprio data la modalità dell’arma bianca e lo spargimento del sangue. Un altro mio zio prendeva il coniglio per le gambe posteriori con la mano sinistra e lo teneva penzoloni, con la destra tenuta di taglio colpiva di forza, calando velocemente il braccio sul collo del coniglio con lo stesso effetto del manico di badile. Una volta è successo che questo zio ha sbagliato mira colpendo la testa anziché il collo facendosi male la mano. Per reazione ha mollato la presa della mano sinistra e lasciò il coniglio che fuggì a razzo. L’ho ritrovato dopo un giorno nascosto sotto una siepe.
Con la tecnica del manico del badile si procedeva per matare volatili di grossa taglia: oche, tacchini, i “masari”, maschi di anatra che sono forti e grossi. Per le galline, capponi, galli, può bastare il manico di scopa. Per i giovani polli e le faraone è sufficiente sostenere il volatile per le gambe, con l’altra mano si prende la testa alla base del collo tra il dito indice e medio e si tira. Gli si rompe come sopra l’osso del collo. Il problema qui è calibrare la forza di trazione perché a volte succedeva che ti rimaneva la testa in mano con conseguente spargimento di sangue ovunque, dato che il volatile continua a battere le ali per un bel po’. Era consuetudine mettere le carcasse appese a testa in giù bloccando le zampe nel cassetto del tavolo o credenza di cucina. Nota: per le oche, tacchini, anatre, era importante, dopo la mattanza, tenerli a testa in giù a che il sangue si accumulasse tutto lungo il collo ben coagulato, con lo scopo di poter tagliare la testa e il collo insieme in senso longitudinale per poterli cucinare, le due metà, sul piano di ghisa della stufa o alla griglia sul focolare a legna. All’ora di cena era tutto un succhiare le vertebre del collo circondate dal sangue rappreso con un filo di olio o di strutto, ben salato e pepato.
Ai colombi invece si tirava il collo prendendolo tra il pollice e l’indice con un piccolo strappo. I passeri, pettirossi, capinere, stornelli nella stagione dell’uva, qualche merlo presi con le trappole a molla, con il cesto, con la colla sui rami e i nidiacei venivano uccisi schiacciando loro la testa tra indice e pollice.
Alla fine di questa macabra descrizione dovrei sentirmi colpevole di crudeltà. Con gli occhi di oggi mi sarebbe impossibile anche solo pensarci, invece durante la scrittura non ho provato disagio, evidentemente ero uscito dall’oggi e rivivevo quel tempo. Il contesto di allora consentiva di ritenere naturale quel comportamento. Non era abbruttimento della “pietas”. A conforto di questo porto ad esempio il rispetto, l’affetto per il cavallo Chicchi, per le mucche chiamate per nome: ea Mora, ea Stamacia, ea Bisa, ea Nina ecc. che durante l’aratura raramente venivano frustate ma sollecitate a voce. Ho scritto che durante la ferratura tenevo il muso di Chicchi il cavallo per tenerlo calmo e lo baciavo. Altro fatto significativo: avrò avuto una decina di anni, avevamo per casa un cagnolino piuttosto vecchio, si ammalò forse per avvelenamento per aver mangiato bocconi per topi. Mamma mi disse che dovevo lasciarlo fuori a morire da solo. Era sera tarda e continuava a guaire, era insopportabile sentirlo. Mi alzai dal letto presi un grosso martello, il badile e la cestina con il cane dentro e andai lontano in mezzo a un campo. Piangevo, piangevo come un automa, lo colpii con una sola martellata, scavai una buca e lo seppellii. Da allora ho evitato di avere animali per casa per quanto possibile. Questo dimostra che il nostro sentire i sentimenti è condizionato dal contesto. Caligola poté permettersi di fare senatore il suo cavallo!
Cerco di fare delle considerazioni, non so se pertinenti. Oggi tutto arriva sulla nostra tavola in pacchetti cellofanati, a nessuno viene mai di pensare alle procedure di macellazione, o alla produzione di uova a mo’ di catena di montaggio in gabbie ristrette. Forse questa è solo una leggenda metropolitana ma gira la storiella che i nostri bimbi non sanno che le parti di pollo al supermercato provengono da un volatile, ma pensano che arrivino da una catena di montaggio/allevamento all’interno di uno dei tanti capannoni della zona industriale. Certamente hanno qualche problema ad abbinare la gallina descritta sull’abecedario di scuola alle fettine sottili e ben distese nel contenitore di plastica incellofanato con sopra la fotografia di un pollaio. In queste condizioni penso si ha buon gioco mettersi in cattedra e indirettamente dare per scontata la pubblicità sul cibo per cani: Bio! Penso che la visione degli animali che avevo allora sia quella che tutti noi abbiamo ora dei pesci!!!
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!” Libro secondo, nr. 133