L’esercito tedesco, fino all’8 settembre nostro alleato, era diventato esercito di occupazione e come tale spadroneggiava. I vari comandi avevano requisito palazzi per uffici e organi di logistica, nonché d’albergo per i quadri di comando. Nelle caserme, dove erano acquartierate le truppe per i servizi, era utilizzato in forma coatta personale italiano.
Tra le tante cose soggette all’acquisizione di era la linea, perciò niente di più comodo procedere al taglio dei platani secolari che ombreggiano le nostre strade. Sono rimasti pochi esemplari di quei vecchi alberi. Molti sono stati reimpiantati. Ogni anno d’inverno venivano potati a rotazione annuale. Noi ragazzi seguivamo quella operazione incantati a vedere gli uomini arrampicarsi sui grossi tronchi e saltare di ramo in ramo per tagliarli. I platani venivano tagliati a una trentina di centimetri dal piano campagna, rimanevano disponibili sul ciglio della strada, in dialetto, le “soche”. Mio padre pensò bene di appropriarsi di un paio di “soche” per ricavare legna da ardere non solo per nostro uso ma anche da vendere o scambiare con generi alimentari con il “casoin” e che ci potevano dare altri beni essenziali che si trovavano solo al mercato nero a prezzi molto alti. Papà si fece prestare da parenti e conoscenti accetta, mannaia, piccone e pale, la mazza con le relative “penoe”, cunei di ferro da piantare con la mazza nel legno per squarciarlo e farlo a pezzi, il “segon”, una grossa sega utilizzata a quattro mani e una grossa carriola. Il luogo del recupero era a un centinaio di metri da casa perciò tenevamo a casa l’attrezzatura sulla carriola che io portavo alla “soca” per quando papà tornava dal lavoro per dedicarsi a far legna. Il primo compito fu di scavare attorno alla “soca” un largo fossato profondo almeno un metro e cinquanta e gradualmente liberare le radici della terra per poterla tagliare. Un lavoro faticoso spostare metri cubi di terra. A questo punto con accette e mannaia quando possibile venivano staccate le radici della “soca” e portate con la carriola a casa. Con mazza e “penoe”, si procedeva a squarciare la “soca” in tanti pezzi trasportabili.
Lo squarciamento risultava tutt’altro che facile. Le radici data la loro conformazione hanno le fibre contorte e quindi non si aprivano come fossero un tronco. Tutta la legna veniva portata a casa dove a tempo debito sarebbe stata ridotta in pezzi utilizzabili nella stufa di casa. Quando arrivava il buio tornavamo a casa con gli attrezzi. A me venivano assegnati i compiti per l’indomani: dopo scuola andavo alla “soca” e scavavo tra le radici per prepararle libere per l’accetta di mio padre quando tornava dal lavoro. Alla domenica si riusciva a fare un bel po’ di lavoro. Sull’orto di casa, che data la stagione era incolto, il mucchio di legna era diventato una montagna a contentezza di tutti al pensiero di quanto avremmo ricavato dalla vendita o dallo scambio merce. Siamo riusciti a recuperare due “soche” perché sull’esempio di mio padre altri si sono dati da fare per far legna.
Ho scritto queste righe per evidenziare quanto fosse difficile sopravvivere in quei tempi di guerra. Qualche tempo prima mio padre non sapendo più cosa fare per mantenere, sia pure al minimo, la famiglia aveva risposto a un bando di lavoro in Germania per operai di una certa età, i giovani dovevano fare il militare. Si presentò presso l’ente di reclutamento e riuscì a superare la visita medica nonostante non vedente da un occhio, fece la valigia e partì. Dopo due giorni è tornato a casa. Fortuna ha voluto che a Verona sede del centro di smistamento della manodopera alle varie fabbriche in Germania hanno scoperto la sua menomazione rispedendolo a casa. Molti di quegli uomini non sono più tornati in quanto le vicende belliche precipitarono con gli sbarchi alleati in Sicilia e la disfatta russa e balcanica.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!” libro secondo, numero 121