Usciamo dalla città verso sud, tra ingorghi e deviazioni. Costeggiamo l’oceano fino a Mamalapur, suggestivo e antichissimo sito religioso con templi sulla sabbia della spiaggia: uno è in parte sommerso dal fenomeno di subsidenza. La meta è Tiruchirappalli per il tempio posto sul culmine di una collinetta di un centinaio di metri, da cui si ha una visione panoramica della sottostante pianura con la cittadina, il lago e l’altro importante tempio alla confluenza dei fiumi. Con il nostro pulmino, fortunatamente piccolo, percorrevamo strette stradine compresse tra distese di risaie spesso ricoperte di piante di loto in fiore.
Era ormai pomeriggio inoltrato, in direzione ovest-sud-ovest, per cui avevamo di fronte il sole che andava al tramonto. Sulla pianura aleggiava una leggerissima nebbiolina, forse dovuta all’evaporazione di quel terreno intriso di umidità. Usciti da una curva, d’improvviso apparve il tempio sopra la collina, poteva essere a due come a dieci chilometri, non si aveva la nozione delle distanze per il sole, la nebbia o cos’altro. La visione era a dir poco surreale, improbabile, inconsueta. Chiedemmo all’autista di fermarsi per fotografare: lo stava già facendo, cercando una possibile sosta. Eravamo incassati tra le risaie e la strada era troppo stretta, penso che in certi punti due auto non potessero incrociarsi. Finalmente si presenta un piccolo slargo per l’entrata ai campi dei carretti dei contadini. Scendiamo: foto, commenti.
La ferratura delle vacche
Stiamo per risalire sul pulmino e mi accorgo che sul fondo di un piccolo affossamento erboso sul ciglio della strada c’era un omino di una certa età, difficile per noi da definire, con la solita veste bianca che si incrocia tra le gambe, seduto sui talloni. Stava battendo dei pezzetti di ferro con un piccolo martello su un’altrettanto piccola incudine, simile a quello che adoperavano i nostri contadini per battere le falci da fieno, allo scopo di indurire il filo tagliente delle stesse. Di fianco aveva un cestino con una miscellanea di pezzetti di ferro, chiodi di sezione quadrata e delle lamine arcuate con qualche foro, simile ai battitacco che si usavano, a mia memoria, durante la guerra per non consumare i tacchi di cuoio delle scarpe o di legno delle galosce (sgalmare). Sempre vicino aveva una ciotola di ferro con un fuoco acceso di carbone di legna che utilizzava per riscaldare i pezzetti di ferro e forgiarli in lamine e chiodi. Chiediamo spiegazioni all’autista che ci ha risposto senza interpellare l’omino, probabilmente perché non conosceva uno dei tanti dialetti che si parlano nella galassia indiana. L’inglese è forse la lingua che in qualche modo ha accomunato tutta l’India. Ci ha detto che si tratta dei ferri per ferrare le mucche: queste infatti hanno lo zoccolo diviso in due unghie, a differenza dei cavalli a zoccolo unico.
Naturalmente per poche rupie ho acquistato un completino di scarpe per vacche: non si sa mai che possano diventare utili! L’omino era felice di chiudere la giornata con un affare imprevisto e ricco.
Cessi indiani
Ripreso il percorso, sempre verso ovest-sud-ovest, dopo una decina di chilometri la strada salì su un terrapieno che si rivelò essere l’argine di un bacino formato da un ponte-diga di un fiume già di per sé molto largo, di- verse centinaia di metri. Da questa posizione sopraelevata il tempio sulla collina era ancora più suggestivo, anche perché il sole era sceso all’orizzonte.
Ci fermammo nuovamente su una piazzola per le foto. Aperta la porta il terreno ci è apparso coperto da feci, tante, da non sapere dove mettere i piedi. Volevo chiarire la frase di apertura sulle sorprese: com’è possibile che sul ciglio di una strada trafficata limitata da un lato dal fiume e dall’altra dall’aperta campagna, senza abitazioni a vista d’occhio, ci sia la situazione descritta? Non è sorprendente vedere qualcuno accucciarsi a fare i suoi bisogni in un luogo, ma non riesco a spiegarmi come sia possibile una situazione simile in un posto pressoché deserto.
Ancora a Mandu, sono le sei del mattino, usciamo dal recinto dell’albergo e sul ciglio della strada c’è un carrettino di un venditore di tè caldo. Uno della compagnia azzarda l’acquisto e si mette in coda dietro a una ragazza vestita con un bel sari. Ad un certo punto la ragazza si accuccia e quasi contemporaneamente da sotto il sari che teneva sospeso esce un rigagnolo che scorre in pendenza verso il ciglio della strada. Il venditore allunga il bicchiere del tè, la ragazza si alza, lo prende e si allontana per lasciar posto al nostro amico che attendeva.
La pesca con la rete
Scendiamo dalla parte opposta sul lato fiume e facciamo le foto al tempio. Qui osserviamo anche il ponte-diga, in lontananza, l’ampio bacino con molte imbarcazioni di singoli pescatori che lanciano reti di un paio di metri quadrati.
Le imbarcazioni sono in realtà zattere costituite da due lunghi tronchi posti lateralmente a una distanza di circa un metro e altri più sottili a costituirne il piano, il tutto tenuto insieme da funi vegetali. Naturalmente i piedi sono immersi nell’acqua e l’equilibrio è precario.
Sottoriva emergono dei grossi sassi coperti di arbusti, dove la corrente d’acqua era particolarmente impetuosa, e qui assistiamo a un modo singolare di pesca con la rete. Un gruppo di quattro uomini immersi nell’acqua disponeva una lunga rete, alta un paio di metri; il primo di essi, partendo dal lato di un masso, tratteneva la rete; un secondo uomo si spostava qualche metro nel senso della corrente, creando così con la rete una parete tra i due, mentre un terzo si portava di lato a circondare il masso. L’ultimo uomo completava l’avvolgimento. A questo punto i quattro uomini alzavano insieme la parte immersa della rete, fino a congiungerla con la parte emersa della stessa: si veniva a creare un lungo tubo che imprigionava i pesci che transitavano sul filo della corrente o che stazionavano attorno al masso. Ho avuto la sensazione che si trattasse di un lavoro faticoso, vuoi per la gestione della rete, ma soprattutto per contrastare la corrente, evitando di farsi trascinare via. Purtroppo le fermate ci hanno fatto perdere molto tempo, per cui ab- biamo dovuto rinunciare alla visita del tempio perché la strada per Madurai era ancora lunga.
Il venditore di tè
Il solito omino biancovestito, la lunga camicia si incrocia tra le gambe, le due falde legate ai fianchi. Il bianco della veste risulta piuttosto opaco, perché il venditore era solito asciugarsi le mani sul suo stesso vestito. Il negozio è costituito da un cassone di legno alto un metro e largo poco meno, posto sopra un telaio a due ruote di bicicletta che gli consentono spostamenti alla ricerca di clienti. Sul piano superiore sono appoggiati gli attrezzi del lavoro: sulla sinistra il fornello per l’acqua e latte caldi. Trattasi di una ciotola di ferro contenente carbone di legna sopra la quale un trespolo sorregge il pentolino dell’acqua e alternativamente del latte. Il fuoco viene tenuto vivo da un ingegnoso meccanismo costituito da una pedivella di bici con relativa ruota dentata e catena che trasmette il moto a un piccolo mantice che soffia sui carboni. Ogni tanto l’omino fa girare la pedivella per ravvivare la fiamma morente: ogni volta si alza una piccola nuvola di cenere che aiuta a condire il tè. Al centro un po’ di spazio libero per appoggiare i bicchieri di vetro al servizio del cliente, sulla destra un piccolo catino pieno d’acqua dentro il quale vengono sciacquati i bicchieri dopo l’uso e posti quindi sul piano di legno ad asciugare, pronti per l’uso successivo. In un angolo la materia prima: una ciotola con le foglie del tè, un bricchetto di latte, un secchiello d’acqua entro il quale viene immerso il pentolino utilizzato per poi riscaldarlo, una ciotola di zucchero di colore scuro che viene prelevato con un cucchiaio di legno che a volte qualche avventore utilizza anche per mescolarlo nel bicchiere del tè, dopodiché lo rimette nella ciotola dello zucchero per il cliente successivo. Non ho visto usare canovacci. Il costo è davvero irrisorio, poche rupie.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!” libro primo, pagina 30