Capodanno del 1934
Sono sicuro di avere avuto almeno tre anni. Ricordo che siamo usciti di casa con papà e faceva molto freddo. Mi teneva per mano mentre trotterellavo. Ogni tanto mi fermavo per farmi prendere in braccio, mi teneva per un po’ e poi mi faceva camminare. Mi portò dagli zii Zago che abitavano lungo la ferrovia verso Mortise. Non erano proprio miei zii, ma parenti della mamma di mio padre. La zia era una vecchina molto simpatica, mi diede cinque centesimi e dei biscotti. Proseguendo per via Pescarotto siamo passati dagli zii Aldo, Bruno, Coca e Gina. Abitavano sopra una vecchia fornace per la produzione di laterizi. Ero contento quando andavo da loro perché in un grande stanzone erano in deposito i cavalli di legno di una giostra rotante. Gli zii mi alzavano e mi facevano cavalcare ora un cavallo bianco e poi uno nero e ancora uno maculato. Ero felice.
Siamo tornati indietro verso la Chiesa della Pace per fare gli auguri alla zia Speranza. Questa zia, quando fui più grande, non più di cinque anni, mi disse che sarei diventato avvocato perché chiacchieravo sempre e volevo sapere ogni cosa. La zia offriva il caffé agli ospiti in piccole tazzine di ceramica colorata di rosa. Il caffé veniva versato sul piattino un po’ alla volta perché si raffreddasse. La zia lo beveva tenendo il dito mignolo alzato e quando ho chiesto perché tenesse il dito in quel modo mi rispose che era buona educazione, anzi raffinato, fare così. Quando sono diventato più grande l’ho visto fare nei film. Non ho ancora capito in che cosa consistesse la raffinatezza.
L’abitazione era a due piani e le case prospicienti a una corte interna erano appiccicate tra loro. Al centro della corte c’era un grande albero di more, squisite. D’estate si stava bene sotto la sua ombra. Era il luogo d’incontro per fare chiacchiere e guardare i bambini giocare.
Osservazioni in Pediatria
Correva l’anno 1935. Con Vittorio, mio fratello, e la Cicci, mia sorella, finimmo in Pediatria a Padova. Mia sorella Gianna non c’era, sarebbe nata nel 1942. Ricordo una stanza con un finestrone attraverso il quale vedevo il fiume. Eravamo ricoverati io, la Cicci e Vittorio, quasi sempre in braccio a mia mamma. Avevamo mal di pancia, facevamo ‘popò’ color sangue. Mia sorella era sempre a letto, Vittorio sempre in braccio della mamma a piangere e io andavo a zonzo per il reparto. Il corridoio finiva con una grande porta finestra che dava sull’argine del fiume, che era tenuto a giardino, con rose, gigli, violaciocche. Al giardino si accedeva salendo alcuni gradini sui quali mi sedevo a guardare l’acqua correre. Ricordo qualche pesce che nuotava controcorrente per inseguire le mosche d’acqua che camminavano a pelo sulla superficie.
Un vecchio appunto
Ho trovato questo appunto forse di una ventina di anni fa. L’ho dovuto ricopiare perché la carta era macerata, l’inchiostro sbiadito, quasi illeggibile.
“Lavoro con passione, forse con amore. Qualsiasi lavoro, operaio, contadino, tecnico esperto, casalingo, dirigente industriale. E ho da sempre una curiosità insaziabile e la necessità di imparare: ricordo molte delle cose che volevo sapere a tre-quattro anni. Una per tutte. Mia mamma mi portò a visitare mio padre ricoverato in ospedale: aveva perso la vista da un occhio a causa di una scheggia di ferro. Volevo sapere come avevano fatto a toglierla e perché non si vedeva, dato che l’occhio era normale e insistevo perché le risposte che mi davano non mi convincevano. Sono sicuro della data, perché a sei anni ho cominciato le elementari alla scuola Belzoni e partivo dalla casa nuova, costruita alla Stanga in via Giambellino grazie al risarcimento per quell’incidente”.
Il primo giorno di scuola
Un dettaglio del mio primo giorno di scuola. Mia mamma mi accompagnò a scuola solo il primo giorno, dandomi tutta una serie di istruzioni: non dare ascolto o parola a nessuno, non cambiare strada, camminare sempre sul ciglio della strada, non fermarsi per nessuna ragione, né a giocare, né a guardare, altrimenti se ritardavo sarebbe dovuta venire a cercarmi e allora sarebbero stati sculaccioni. Non attaccarsi dietro ai carretti, cosa normale per tutti i ragazzi. Io l’ho fatto alle scuole secondarie.
Giochi stupidi
Avevo appena iniziato la terza elementare con il maestro Andreatta, la prima e la seconda l’ho fatta con la maestra Petch. Vengo colpito da forti dolori a un orecchio, diagnosi: otite acuta purulenta. Cominciano le cure, non c’era la penicillina, senza risultato. Mi ricoverano in Otorinolaringoiatria dal professor Arslan, il padre di Antonia Arslan autrice de “La Masseria delle allodole”. Qui scoprono la presenza nel canale auricolare di un corpo estraneo che risultò essere un grano di pepe! Evidente lo stupido gioco di un bambino.
La guarigione fu un percorso doloroso e lungo accompagnato da vertigini che mi costringevano immobile a letto a guardare un punto fisso sul muro. Divenni la mascotte del reparto. Le suore mi adottarono e divenni un loro aiutante, arrotolavo le fasce di garza che giornalmente lavavano per recuperarle a nuovo uso. Era un lavoretto davvero impegnativo. Un giorno a pranzo c’erano asparagi e le suore, visto quanto mi piacevano, me li prepararono per giorni e giorni. Essendo ormai fuori menù li preparavano solo per me per cui mangiavo fuori orario. Mi mettevano su un panchetto per bambini a ridosso dei finestroni che chiudevano il corridoio ricavato con la chiusura del colonnato del chiostro dell’ultimo piano dell’ospedale vecchio. Il famoso grano di pepe venne messo in una teca vetrata dove erano esposti i corpi estranei tolti ai pazienti, in maggior parte dalla gola, spine di pesce, bottoni, pezzetti di metallo ecc.
Qualche anno dopo fui operato di tonsillectomia e ho rivisto sulla parete della sala operatoria il mio grano di pepe nella teca. L’ho ritrovato dopo trent’anni quando fui operato alle corde vocali dal professor Sala nel reparto trasferito al Policlinico. Quest’ultimo intervento fu patrocinato dal professor Vittorio Scimone, di medicina generale, padre del maestro Claudio Scimone direttore dei Solisti Veneti, che mi aveva in cura. Era contitolare della Zedapa, l’azienda in cui lavoravo. Omaggio a Claudio Scimone
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!”, libro primo, pag. 11