Siamo nel pieno della guerra. La disfatta è già iniziata. L’8 settembre 1943 il legittimo governo ha capitolato e, di seguito, il re è fuggito. La nazione, la parte settentrionale, è in mano ai tedeschi. Il Sud è territorio di conquista degli alleati. Tutte le difficoltà si acuiscono, comincia la guerra civile, partigiani contro repubblichini (Repubblica di Salò) in appoggio alle truppe tedesche.
I bombardamenti sono frequenti, i generi alimentari introvabili se non al mercato nero a prezzi esorbitanti. La struttura statale è precaria, compresa la sanità. Le famiglie sono disarticolate, gran parte degli uomini sono coinvolti con i fatti d’arma: nell’ombra di un esercito affiancato a quello tedesco, le orde repubblichine, i partigiani, gli sbandati, nascosti per non essere obbligati a tornare a combattere o a essere deportati in Germania o nella migliore delle ipotesi convogliati al lavoro forzato nelle fabbriche. Molte famiglie delle città sono sfollate nelle campagne per sfuggire ai bombardamenti per cui, in questo groviglio di difficoltà, l’approvvigionamento alimentare era difficile.
Le proteine
In quel tempo ero in campagna dai miei nonni materni, ho già detto in altri scritti di questo periodo molto importante per la mia formazione di adolescente nonostante le difficoltà. Un giorno lo zio Nino mi chiamò per aiutarlo nell’affilatura di alcuni coltelli, la facevamo di frequente questa operazione. I coltelli per il giorno dell’uccisione del maiale, l’affilatura dei badili e delle zappe ecc.
L’occasione era però insolita. Il mio compito era di girare la manovella che faceva muovere la grossa mola di pietra abrasiva; sopra la mola c’era un contenitore d’acqua che serviva a tenere lavata la mola. Caratteristico lo spinello che consentiva all’acqua di spillare con costante gradualità: si trattava di un pezzetto di legno grosso come un mignolo piantato su un foro praticato sul fianco inferiore del secchio per cui, allentando più o meno la forza di penetrazione, usciva più o meno acqua. Chiesi allo zio, come sempre di poche parole, il perché di questa affilatura fuori tempo. “Te vedarè stasera” rispose.
Era buio quando arrivò lo zio Achille, non era uno zio vero ma acquisito, per una diceria che non sono mai riuscito ad appurare. Aveva sulla bici, che spingeva a mano tanto era carica, due sacchi ben gonfi che aiutai a scaricare, erano pieni di qualcosa di limaccioso e puzzolente; inoltre gocciolava una poltiglia rosa-rossa. Portammo i sacchi in cucina e rovesciammo il contenuto sul- l’ampio tavolo quadrato. Sorpresa: si trattava di un cumulo di scalpi di mucche, comprensivi di orecchie, occhi, narici e labbra. Alcune erano di pelo nero, nero-bianco, beige, beige-rosso; la forma di ognuna di queste maschere si presentava nelle posizioni più surreali: l’occhio della nera sull’orecchio della beige, le froge della rossa fra le labbra della bianca, qualcuna era rovesciata per cui si vedeva una superficie sanguinolenta. Quando da adulto vedevo e vedo dipinti di Picasso e della sua scuola, ricordo puntualmente quella serata.
Le zie Giulia ed Evelina, gli zii Nino e Achille e io, coltello alla mano, cominciammo a scorticare gli scalpi. A me vennero date le orecchie, dovevo spellarle con cura aprendole in modo da raschiare anche il canale auricolare, pieno fra l’altro di cerume. Altri scuoiavano le labbra, con i loro prolunga- menti palatali, dovevano eliminare i villi che spuntavano dalla superficie. Lo zio recuperava gli occhi che, ammucchiati, mantenevano l’aspetto mansueto “mite nei sentimenti”. Un paio di occhi erano comunque una abbondante porzione di proteine. Una volte recuperate le parti edibili, di cui dirò l’utilizzo più avanti, buttammo il resto in un grosso cesto che, all’indomani, avrei dovuto seppellire ben profondamente al centro del letamaio in modo da evitare che i cani potessero recuperarlo.
Le parti edibili, esclusi gli occhi, venivano bolliti in modo da poterli ulteriormente ripulire dalle cartilagini residue e quindi tagliate a pezzetti da mettere in umido col pomodoro, verdure varie e patate. Per una settimana è stato un mangiare a gogo, non c’era il frigorifero, perciò tutto doveva essere consumato in tempi brevi.
Lo zio Achille lavorava nella conceria Morandi di Noventa Padovana, dove confluivano le pelli dei vari macelli della zona. A fronte dell’emergenza alimentare i dipendenti della conceria si dividevano le spoglie dei macellati.
Le difficoltà aguzzano l’ingegno e l’adattamento della schizzinosità fa di ogni necessità virtù. La vita è maestra e ho tristezza che i miei figli e nipoti non riescano a far tesoro di cotante esperienze. Altresì, perché patire difficoltà per poter meglio superarne altre future? Ma con questi discorsi si rischia di infilarsi nei meandri della filosofia. Dico però che io, dato il contesto che è un dato di fatto non eludibile, sono contento di aver vissuto queste esperienze che mi hanno consentito di godere a fondo di quello che la vita mi ha dato finora.
L’ammasso
Sempre in quell’inverno di bombardamenti e carestia, nel 1943, altri avvenimenti vanno segnalati tra cui la carenza di cibo, in particolare in città, dove ben poco poteva essere realizzato per mancanza di spazi. Qualche fazzoletto di terra per coltivare qualche ortaggio dove prima c’era giardino o praticello, qualche coniglio in gabbia sul poggiolo di casa, mentre l’erba veniva raccolta qua e là lungo le mura di cinta della città, sugli argini, su qualche aiuola. Era ben poca cosa per i bisogni di tanta gente. Le carte annonarie consentivano porzioni davvero esigue e insufficienti. Un esempio per tutti: 120 grammi di pane a testa al giorno. Teniamo presente che non si poteva realizzare il mandato della regina di Francia che in mancanza di pane venissero distribuite delle brioches. Perciò ognuno provvedeva a integrare in qualche modo la carenza alimentare.
Molti avevano legami di familiarità con parenti di campagna che in qualche modo potevano nascondere all’ammasso parte di quanto coltivavano. L’ammasso era l’obbligo di consegna dei prodotti agricoli ai consorzi agrari che provvedevano alla ridistribuzione a tutta la popolazione. Naturalmente attorno al fenomeno di questa ricerca di cibo, e di qualsiasi altro genere mancante sul mercato, si era creato un commercio illegale, con prezzi accessibili solo a chi aveva disponibilità economiche, che penalizzava ulteriormente la povera gente.
Vado ora a raccontare dei fatterelli illuminanti la situazione.
La farina
Una sera forse di tardo autunno-inverno, ricordo una fitta nebbia e un buio pesto, viene a casa in via Giambellino alla Stanga mio cugino Marcello, aveva sui 22 anni, in bicicletta, a prendermi per andare in campagna a recuperare della farina di frumento. Salito sul telaio della bicicletta ci avviamo su via Facciolati verso Piove di Sacco. Già a Voltabarozzo avevo le gambe anchilosate per aver precluso lo scorrere del sangue e ci siamo dovuti fermare. La bicicletta aveva il fanale a olio con una flebile fiammella che consentiva un alone di luce davvero limitata.
Finalmente arriviamo in zona di Rio, entriamo in una stradina ad angolo acuto di terra battuta e quindi ci fermiamo in una casetta di contadini. Io resto fuori a guardia della bicicletta. Dopo un po’ Marcello esce con due sporte di farina che appoggia su due portapacchi e riprendiamo la strada del ritorno. Chiesi poi a Marcello il motivo della mia presenza; mi disse che saremmo passati inosservati alla stazione del dazio all’entrata in città.
Il sale a Trieste
Ricordo quanto mi raccontò mia madre di un suo viaggio a Trieste per acquistare del sale. È stato un racconto molto frammentato. Una signora, nostra vicina di casa, era di Trieste e convinse mia madre ad accompagnarla alla sua città per acquistare del sale per sé e per rivenderlo.
Viaggiare di quei tempi era avventuroso. Il treno era alla mercé dei bombardamenti, infatti dopo un primo tratto dovettero proseguire in autostop su camion militari. Del ritorno non so praticamente nulla, salvo che son tornate su più mezzi con l’autostop. Nel frattempo, così racconta mio fratello, un ufficiale della Brigata Muti della Repubblica di Salò sezione di Padova che abitava in zona, forse a seguito di una soffiata, andò a casa mia dove trovò solo mio fratello, da tempo io ero sfollato in campagna, che fu portato al comando di via San Francesco e interrogato a lungo su dove fosse la mamma. Aveva allora 9 anni e non ha saputo dire nulla, fu quindi riportato a casa.
Il formaggio grana
Parliamo ora del formaggio grana. Una sera mio padre tornò a casa, era già buio, con un grosso pacco piuttosto pesante, in cucina c’eravamo solo io e mia madre, appoggiò il pacco sul tavolo e lo scartò, prima un telo e poi un gran foglio di carta oleata azzurra dal quale emerse mezza forma di formaggio grana. Era questo un prodotto molto richiesto dalle famiglie contadine le più abbienti e per il quale davano volentieri a baratto farina di frumento, di granoturco, grasso di maiale, cotechini, salami.
Non ho saputo come sia venuto in possesso di quel ben di Dio. Resta il fatto che cominciò a tagliarlo a pezzi di circa mezzo chilo l’uno, li pesò con cura riaccartocciandoli e raccogliendo fino all’ultima briciola. Mise il tutto in due grosse sporte di tela e all’indomani mattina partì molto presto, era ancora buio e tornò a sera tarda con un carico enorme di cibarie ottenute in baratto.
La cosa che resta scolpita nella mia memoria fu il non aver assaggiato neanche un grammo di quel formaggio. Non ero però dispiaciuto o arrabbiato. Anzi ero contento sapendo che avremmo avuto in cambio un bel po’ di pane. Solo molti anni dopo ricordando quei fatti pensai al dolore dei miei genitori, consapevoli della fame arretrata di noi figli, a non darci un po’ di quella grazia di Dio.
Le verdure
Avendo noi parenti contadini facevo spesso viaggi in bicicletta a Noventa a raccogliere verdure varie che portavo in città in modo che mia madre avesse merce di scambio per ottenere quei generi che non si trovavano altrimenti, come lo zucchero. Oggetto di scambio erano anche i conigli che mio padre allevava in gabbia dietro casa, mio compito era raccogliere erba tutti i giorni per alimentarli correntemente ma anche per essiccarla per l’inverno, quando la neve rendeva impossibile l’approvvigionamento.
Nei dintorni di casa c’erano molti campi coltivati per cui a volte non resistevo alla tentazione di rubare qualche sacco di erba medica, in dialetto spagna, raccogliendone ciuffi qua e là in modo che il contadino non se ne accorgesse, speravo.
I colombi
Anche i colombi erano ricercati, mio padre aveva costruito ben otto casette a due fori che appese sopra la baracca degli attrezzi e depositi vari fuori dalla portata dei gatti. Infatti, nella buona stagione, i colombi sono autosufficienti per l’alimentazione, per cui i pulcinotti ottenuti erano pressoché gratis. D’inverno venivano tenute un paio di coppie da fare sviluppare durante la buona stagione.
Il maiale
Un periodo abbastanza buono era dicembre-gennaio, al tempo della macellazione dei maiali, perché non tutte le parti potevano essere conservate come i salami, i cotechini, il grasso fuso tenuto nelle vesciche urinarie, il lardo sotto sale. Mentre le frattaglie, gli stinchi, i piedi, lo sgrugno, completo di orecchie e occhi, il fegato, le varie ghiandole, i polmoni, il cervello, le ragatelle eccetera, venivano barattate con altri generi. Data la disponibilità del periodo sul mercato il baratto risultava favorevole. Noi che avevamo contatti con i contadini facevamo da scambisti con la gente di città, riuscendo in tal modo a ricavarne un certo reddito naturalmente in natura.
Il sapone e la crisi economica
Siamo un gruppetto di adulti, responsabili, che con la dovuta serietà del momento disquisiamo circa il modo di uscire dalla stagnazione che provoca disoccupazione e incertezza sul futuro. L’opinione più gettonata, riproposta a piene mani dai soloni dei media, è quella di individuare il modo di rilanciare la “crescita”. Dentro di me ho pensato subito al moto perpetuo, l’invenzione dell’energia a costo zero. Non ho esposto il mio pensiero, avrebbe fatto scandalo. Altra opinione è quella di ridurre le spese inutili, sacrosanta opinione che non è però condivisa dalla moltitudine che da queste traggono beneficio, vedi le schiere di guardie forestali sulle spiagge, al sud. Anche questo non si deve dire, non è politicamente corretto. Che fare allora? Finora ero stato zitto. Venni sollecitato a dire la mia opinione. Ho pensato un po’ poi domandai di raccontare una quasi favola sul sapone. Eccola.
Era, forse, il 1942. Erano attive le carte annonarie, 120 grammi di pane, 30 grammi di burro e via elencando. Anche il sapone, duro e ruvido, veniva distribuito a mozziconi. Ero garzone del casoin del quartiere. Un giorno ero in casa dei Podetti, vicini di casa, e guardavo Attilio, il padre, che stava tagliando dei pezzi di grasso di animali puzzolenti e li metteva in una grossa caliera di ghisa posta sopra la stufa a bollire. Insieme al grasso bollivano anche altri ingredienti che non conoscevo. Dopo qualche ora nella caliera si era formata una poltiglia densa. Questa brodaglia fu versata in una bassa e larga cassetta di legno e lasciata a raffreddare. Il giorno dopo sono stato molto attento a essere presente al taglio in pezzi di quella poltiglia, che si era di molto rassodata. Ed ecco il sapone.
Facciamo ora un salto nel tempo di 70 anni e arriviamo alla crisi del 2012. In un angolo dell’armadio dei detersivi c’è una vecchia scatola da biscotti piena di residui di pezzi di sapone, verdi gialli, rossi, bianchi, bicolori consumati al 25% rispetto ai pezzi nuovi. “Non si può dare all’ospite un pezzo di sapone usato da altri”. Morale: non usciremo da questa e da nessun’altra crisi se non adoperiamo il sapone fino in fondo.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!”, libro primo, pag. 81