Libro I Mi Sono Sbottonato! Ricette

Latte e pan biscotto

19 Aprile 2020

I miei genitori, dopo il primo bombardamento di Padova, il 16 dicembre 1943, mi fanno interrompere la scuola e mi mandano in campagna al sicuro dalle incursioni aeree. Non proprio del tutto, perché nel 1945 un caccia da ricognizione, la versione giornaliera di “Pippo” che agiva di notte, ha individuato un barcone che transitava sul Piovego e ritenendolo portatore di chissà quali mezzi bellici, ha ritenuto di doverlo mitragliare. Ho sempre pensato che qualche pilota giocasse al tiro al bersaglio.

Il Piovego è un corso d’acqua scavato dai veneziani per congiungere Padova al Brenta e quindi a Venezia, lungo la riviera che da Stra arriva in Laguna. L’argine del Piovego confinava con i campi di mio nonno pertanto, quando il caccia in picchiata mitragliò il barcone, passò così basso che mi è sembrato di sentire uno spostamento d’aria. Contemporaneamente ho sentito un fischio e alcuni tonfi molto vicini. Quando mi sono riavuto dalla sorpresa, forse non ho fatto in tempo ad avere paura, ho cercato intorno tra l’erba sotto le vigne finché ho trovato un bossolo lungo una spanna e grosso come il bastone di mio nonno.

Al mattino la sveglia era all’alba, in quel momento un po’ magico che non sai se sia ancora notte o se è già giorno. Non sono mai riuscito a darmi una risposta, perché il transito dalla notte al giorno è così rapido, o non rilevabile, che nel momento di fissarlo, quel momento, si è già dileguato. Anche perché la realtà incalzava.

La cura della stalla

La realtà era costituita dalle mucche che muggivano, queste sì erano ben conscie che il giorno era arrivato e pretendevano l’inforcata di fieno e il secchio d’acqua. La cura della stalla chiedeva almeno da una a due ore a seconda delle varie mansioni da svolgere: dare da mangiare, da bere, pulire e cambiare la paglia alla lettiera, bruscare e spazzolare e a volte lavare il mantello delle mucche che spesso si sdraiavano sopra i propri escrementi, fare allattare i vitelli dalle loro madri. Il vitello, quando aveva finito la sua poppata, scappava dappertutto e magari tentava di andare a succhiare il latte da una mucca diversa che naturalmente lo prendeva a calci.

La prima colazione

Finalmente, chiusa la porta della stalla e tornato all’aria aperta, sentivi aleggiare il profumo del latte bollito, del salame e della polenta abbrustolita e non ultimo lo stomaco vuoto che chiedeva cibo. In cucina, sopra una mensola, c’era il cesto del pane biscotto, dal quale prendevo una grossa pagnotta a due corni, in un canovaccio di tela arrotolavo il pane e con il martello, sotto il portico della stalla, seduto su una panca, battevo il pane chiuso nel canovaccio per farlo sbriciolare. Tutto questo avveniva lontano dalla vista di mia nonna, perché battendo il pane attraverso il canovaccio spesso provocavo degli strappi sullo stesso rimediando dei rimproveri.

Il pane biscotto immerso nel latte caldo aveva un sapore a dir poco sublime. La polenta e il salame abbrustoliti completavano il rito del mattino, tanto da far sembrare la realtà della giornata una gita di piacere. A volte, anzi spesso, il rito si ripeteva per cena e posso assicurare di non essermi mai stancato del menù.

I pasti

Altre pietanze avevano il mio incondizionato consenso: risi e bisi, risi e fagioli freddi, risi e verze, risi e zucchine, pasta fatta in casa all’uovo, magari la maltirata, cioè di spessore variabile, condita in qualsiasi modo: con il sugo di pollo o coniglio, anatra o oca in umido, con i bisi, fagioli freddi, verze, zucchine, con il sugo di cotechino in umido o abbrustolito, con i fegatini e “chi più ne ha più ne metta!”.

La minestra, la polenta, le verdure erano sempre abbondanti, il companatico invece era un tantino striminzito. In ogni caso quasi sempre riuscivo a completare il pasto in campagna con la frutta, l’uva in particolare, durante la buona stagione mentre nella brutta c’erano le mele in granaio, qualche rapa, l’uva messa a seccare, con parsimonia i nespoli a novembre.

Memorabili le scorpacciate nelle feste importanti! I giorni della trebbiatura: minestre di verdure e coniglio arrosto. Pasqua e lunedì dell’Angelo: uova, asparagi e pollo fritto. Sagra di Noventa: bollito di anatra, cappone e gallina. Natale: bollito come sopra, oca arrosta. Uccisione del maiale: sanguinacci fritti, ossetti, sissole fritte, ragatelle ai ferri. La vendemmia: soppressa abbrustolita, pollame in umido e polenta. Altri tempi!

Polletto fritto

A primavera, proprio ai primi segnali, qualche gemma sugli alberi, uno spiraglio di sole, il volo degli uccelli più brioso, zia Giulia metteva un paio di tacchine, che sono chiocce feconde e capaci, a covare uova di gallina; dopo una ventina di giorni era tutto un pigolare per l’aia. Ancora quindici giorni e i pulcini perdevano la grazia di batuffoli di piume per diventare ridicoli polletti dal collo sproporzionato, mezzi nudi, con spuntoni di penne, malformate. Certo non erano utilizzabili come carne, né arrosta, tanto meno bollita e neanche in umido.

Era questo il periodo dell’anno più carente di proteine. Del maiale erano rimasti solo i salami. Le costine, i cotechini, le frattaglie, tutto era finito. Non c’era il frigorifero. Per la carne di bue mancavano i soldi, il pollame e i conigli non si erano riprodotti durante l’inverno.

Quindi la nonna Beppa aveva escogitato il modo di utilizzare i pulcinotti di cui sopra. Zia Giulia provvedeva a prenderli, macellarli e pulirli dalle poche penne e viscere, la nonna poi li apriva per tutta la lunghezza creando una larga bistecca con gambe e ali. Preparava in una terrina una poltiglia densa di farina di frumento, uova sbattute, salava e pepava a puntino e in questo intingolo immergeva ripetutamente le bistecche di pollo. Si formava sulla carne uno strato che dopo la cottura risultava croccante. Nel frattempo aveva sciolto nella padella lo strutto di maiale nel quale le immergeva fino alla cottura, che risultava rapida data la giovane età dei pollastrelli.

A pranzo eravamo in otto, quindi ne preparava almeno due ciascuno perciò quando metteva in tavola il tagliere di legno con sopra i polletti e il tagliere della polenta fumante era un assalto… Dimenticavo di dire che sul piatto non rimanevano neanche gli ossi, perché erano così morbidi da confondersi con la carne e la crosta.

Acini d’uva

Ero in Piazza delle Erbe a comprare la frutta. Appoggiato alla bici ho preso un grappolino di uva guardandomi in giro per godermi l’ambiente, i banchi colorati di frutta e verdura, la gente indaffarata agli acquisti, i turisti impressionati, il Salone. Staccato l’ultimo acino, sovrappensiero mi son messo a staccare con i denti quei piccoli residui di polpa d’uva rimasti all’attacco degli acini. D’improvviso mi ricordo che da bambino, ma non solo io, direi tutti quelli che conoscevo, quando avevamo la fortuna di avere l’uva, non sprecavamo neanche quelle briciole. Infatti lo zio Nino in campagna, pur avendo un vasto vigneto, non ci permetteva di andare a prendere nemmeno qualche chicco. Durante la vendemmia non voleva che continuassimo a mangiarla. Ci era consentito il giorno dopo la vendemmia di tornare alla vigna spoglia a cercare i ‘receti’ dimenticati. Morale: perché l’uomo ha la memoria corta?

Mia madre: “Tonin, màsena un fià de sae”. Io prendevo la bottiglia dell’olio, era l’unica bottiglia di vetro che c’era in casa, un po’ di sale grosso e sopra una piastrella da pavimento appoggiata sul tavolo, macinavo il sale rotolandovi sopra la bottiglia. Noi poveri non potevamo comprare il sale fino!

Fatti salienti della guerra

Ciao ragazzi, Brenda ha chiesto fatti salienti di guerra, eccone uno insolito. Almeno una volta al mese vado a pranzo dallo zio Vittorio. Lo zio, anche dopo sposato, ha sempre vissuto con la nonna Emma, perciò la zia Pia ne ha acquisito le consuetudini. Una di queste è quella della sequenza delle portate di cibo a tavola: Primo: minestra o pasta; Secondo: verdura cotta o cruda; Terzo: le proteine.

Perché questa insolita sequenza? Sono passati ormai settant’anni.
Durante la guerra la mancanza di cibo era di tutti i giorni. Nostra madre aveva escogitato la sequenza ancora in uso di fare un primo di passato di verdura quasi sempre inzuppato con pane raffermo che io prendevo dai frati di Sant’Antonio che lo distribuivano ai poveri. Il secondo piatto verdure di campo in abbondanza condite con la cotica di maiale che ovviamente veniva mangiata. Per ultimo le proteine, che il più delle volte si riducevano a mezzo uovo o un panino di marmellata. La quota giornaliera di pane era di 120 grammi, era razionato come tutti gli alimentari. Alla fine quale può essere la morale della favola? Il passato riesce a insegnare qualcosa?

Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!”, Libro I, pag.46

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