Scritto per Alessandro
Quali gli insegnamenti della vita? Da bambino vivevo in seno a una comunità sociale omogenea. Forse non vedevo le differenze che senz’altro c’erano. Non c’era invidia per chi aveva di più o commiserazione per chi aveva meno. Solo a quattordici anni, con la fine della guerra, ho cominciato a percepire le differenze sociali e quindi a chiedermi cosa fare per un tenore di vita migliore. Mia mamma Emma aveva le idee chiare in proposito: devi imparare un mestiere, svolgerlo al meglio e poi leggere, leggere, leggere. Per un lungo periodo il giornalaio lasciò il giornale sul cancello di casa.
Ho fatto il servizio militare come cameriere in un circolo ufficiali d’alto rango. Ho capito che il modo per elevarsi passava per lo studio. Molti ufficiali provenivano da ricche famiglie, altri venivano della gavetta e fu a questi ultimi, che avevano realizzato i loro obiettivi in virtù di doti che anch’io potevo avere, buona volontà e studio, che mi ispirai. Su questa consapevolezza ho impostato il mio fare.
Ho capito anche che la realizzazione dei sogni è fatta da un 1% di fortuna, un altro 1% di genio ma il restante 98% è sudore, fatica e spesso rinunce. Quanto fin qui detto, accompagnato da onestà, che non è facile mantenere in un mondo di competizione spregiudicata, sono state le linee guida che ho seguito e ciò che ho realizzato l’ho ottenuto nell’ambito di tali principi. Contestualmente non ho rimpianti per non aver realizzato di più. Penso di aver avuto la giusta mercede.
Lungo la strada del vivere ho dovuto confrontarmi anche con altre considerazioni: la sfortuna, l’ingiustizia, così come la malattia possono essere contrastate, non eliminate. Con la buona volontà possono essere minimizzate. E con l’accettazione di una, per quanto possibile, serena rassegnazione. E il conforto della fede per chi ce l’ha in dono.
Decidere di avere fede
Leggo sulla teoria dell’evoluzione: i nostri progenitori sono gli scimpanzé, da cui successivamente le varie categorie degli uomini primitivi. Ho provato a costruire l’albero genealogico degli umani e mi sono accorto che è pur vero che l’albero è unico, come è altresì vero che tutti gli esseri umani derivano da una unica molecola primordiale da cui dinosauri, pesci, piante, insetti ecc..
Ma dall’albero degli umani discende tutta una schiera di uomini diversi che si sono evoluti nel tempo ma poi si sono estinti come specie. Quindi l’evoluzione può migliorare una specie in successive “specializzazioni”, magari dovute a situazioni ambientali, come gli occhi semichiusi degli eschimesi per ripararsi dalla luce o la pelle nera per difendersi dal sole. Ma a un certo punto nonostante i miglioramenti si estingue. Perché?
Si dice che i coccodrilli sono cosi dall’origine del mondo, perché non si sono evoluti come gli umani che sono decisamente più giovani come specie? Vuol dire forse che la casualità del caos ha premiato gli uni e mortificato gli altri? Oppure che lo “zampino di Dio” ha toccato i primi e dimenticato i secondi? E qui torniamo a trasferirci in un altro piano, quello della fede.
La zia Maria
La zia Maria pochi giorni prima di morire, forse aveva capito che l’ora era vicina, durante una delle mie frequenti visite alla casa di riposo, ha tirato fuori da sotto il cuscino un pezzetto di carta consunto e spiegazzato dicendomi: “L’ho scritto tanto tempo fa, mettilo in tasca”.
Continuiamo con la routine di ogni visita all’O.I.C. della Mandria: il caffè al bar in carrozzina, era parzialmente paralizzata, le chiacchiere sulle vicende settimanali, qualche aneddoto della sua lunga vita. Dopo un’oretta con tanta mestizia ci salutavamo certi di rivederci. L’ho frequentata quando era in casa di riposo ma anche prima a casa sua, viveva da sola, almeno una volta alla settimana. Ci stimavamo. Appena uscito ho letto il bigliettino, che ho qui riprodotto. Sono rimasto colpito di quanto la mia presenza abbia la- sciato il segno. Per inciso era una zia acquisita.
Molti anni dopo, rivedendo casualmente quel biglietto, mi sono chiesto: perché ho seguito con tanta attenzione la zia Maria? Sarebbero facili risposte tipo: da bravo scout ho fatto una buona azione, con questo comportamento mi sento bene con me stesso, voglio dare il buon esempio in particolare ai miei figli, egoisticamente per fare bella figura. Forse può esserci qualcosa anche di questo. Ritengo però che ci sia qualcos’altro di ben più profondo. Negli ultimi anni mi sono più volte chiesto: con i tuoi genitori come ti sei comportato? A mio padre, morto nel 1974, dopo non poche sofferenze, ho dedicato poco tempo. Mi ritenevo giustificato dall’impegno gravoso del lavoro, in realtà mi era doloroso vederlo soffrire e forse inconsciamente ne restavo lontano.
Ho assistito altri, mi era più facile farlo, ero meno coinvolto emotivamente. Anche con mia madre, dieci anni più tardi, non ho tenuto sufficienti contatti da capire l’avvicinarsi della sua fine, che è stata improvvisa e rapida, ma non senza avvisaglie tali da farmelo capire. In questo caso, al di là dei miei impegni, fu pigrizia. Spesso mi sono trovato di fronte a situazioni di vita reale, letture, film, storie di sofferenza, in particolare di bambini e anziani o comunque di esseri indifesi, come gli handicappati, e provo un profondo disagio che cerco in tutti i modi di evitare. E quando non posso evitarlo lo affronto a muso duro, provando conseguentemente una gran sofferenza. Sarà così?
La lunga e tremenda fatica del morire
Sono vicino a mio fratello in un momento difficile. Secondo la scienza siamo vicini alla fine, al trapasso, parola che presuppone il passaggio a un altro luogo. Sta percorrendo l’avvicinamento a quel momento dopo il quale non esiste alcun momento.
Provo a chiarire. Ho assistito diverse persone lungo questo doloroso per- corso. È sempre un lungo percorso. Secondo il metro umano può essere di giorni, ore, minuti, in un caso fu di anni. Il momento finale per tutti è l’infinito, si perde la temporalità, per cui il percorso può essere descritto con un ossimoro: un istante dilatato può essere, come detto, di giorni, minuti, ore, anni. Questo per dire che chi vive l’istante dilatato reagisce in ogni momento come fosse l’ultimo e lo vive con l’angoscia del non ritorno. Quindi infinita deve essere la comprensione di chi è vicino a chi vive l’estrema esperienza.
Chi assiste deve considerare l’istante dilatato l’ultimo anelito alla vita anche se lungo giorni e giorni. In questo senso vedo positivamente la preparazione medico-infermieristica attuale molto più consapevole del passato, quando il paziente nello stato di istante dilatato veniva mal sopportato e supportato.
Come ho acquisito questa consapevolezza? Mi sono accorto che il morente, adopero finalmente la parola pertinente, ritiene fondamentale alla sua sopravvivenza cose assolutamente inconsistenti ritenute frutto di bizze o egoismo. Alcuni esempi: il cuscino doveva essere spostato di 5 cm, se riteneva che l’avessi spostato di 10 protestava! Con pazienza mi adeguavo, perché capivo che quei pochi centimetri valevano la sua sopravvivenza. L’inclinazione del materasso, la poca o tanta luce, la temperatura dell’acqua, le persone che parlano di cose non pertinenti, gli tolgono spezzoni della sua vita. Ho capito che lo stato d’animo del morente è proteso a salvaguardare il soffio vitale ormai esangue. Ho capito che era mio dovere rispettare in ogni modo il suo comportamento. Non è facile. La naturale propensione alla rimozione del pensiero della morte di certo non aiuta. So che anch’io vivrò l’istante dilatato.
Il grido di Cristo sulla croce: Eloì, Eloì, lamà sabactanì. Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato? ci dice che l’istinto di conservazione, di sopravvivenza prevale su ogni altro sentimento. Se così non fosse l’umanità non sarebbe sopravvissuta nei secoli ad avversità inimmaginabili.
Nostalgia
Mi sono svegliato infreddolito. Da molti giorni siamo chiusi in casa prigionieri dell’aria condizionata, fuori c’è una cappa di caldo umido da togliere il fiato. Siamo vecchi, soggetti a rischio, perciò ci atteniamo alle prescrizioni. Mi guardo intorno, è ancora buio, anzi no, sta schiarendo, esco dal mondo reale. Sento il profumo dell’alba in montagna in un giorno di fine agosto e di fine ferie. Un tantino triste. L’elenco delle ferrate possibili esaurito. Solo una gitarella in macchina tutti insieme alla baita per polenta e camoscio a incrementare il disagio della fine vicina.
Allora però in fondo all’anima, in un angolo, c’era “ci rivedremo un dì”. L’anno prossimo a riscrivere l’elenco delle ferrate possibili per poi rivivere il giorno freddo, fresco, di fine agosto, di fine ferie.
Il tempo che passa
Considerazioni sul tempo, non meteorico, ma come un susseguirsi di ore, giorni, anni.
1931–1946. Fanciullezza e un po’ di pubertà. Un tempo spensierato e felice fatto di scoperte e sogni. Nulla mi impediva di essere contento, né la fame, né la paura della guerra, né i disagi della povertà. Solo la gioia di essere, di scoprire, di imparare. Le ore non si contavano ma si vivevano. Si utilizzavano inconsciamente per mettere in saccoccia il mondo, del mondo quanto più possibile. Si può definire questo il tempo di preparazione al tempo adulto. L’ho scoperto dopo.
1946–2016. Di punto in bianco la svolta, una cesura drammatica. Il tempo si trasforma da entità indefinita, eterea, in un qualcosa di reale, misurabile, di cui si diventa servitore puntuale e imprescindibile. È il 1946: inizio a lavorare, sono ancora un ragazzino e sono catapultato nel mondo adulto. Metto per iscritto la scansione del tempo dei successivi 70 anni. Lavoro: mediamente 11 ore al giorno compresi gli spostamenti. Riposo: 7 ore quando andava bene. Altro: 6 ore famiglia, cultura/viaggi, impegno sociale, amicizie. Con il senno di poi tante di quelle cose per cui il tempo, a mia insaputa, si è dovuto dilatare per consentirmi di averle fatte con un minimo di serietà.
2017 è l’anno dello spaesamento, di perdita d’identità, non so più chi sono! Del periodo 1946–2016 poco è rimasto.
Salute. Non è più quella di allora, è diventata una entità da gestire con tempi e mezzi diversi e, quel che è più importante, con un approccio mentale che non è più scontato. La salute è una cosa acquisita, con qualche inciampo strada facendo, ma ovvia.
Lavoro. L’elemento condizionante è scomparso, come sostituirlo? Non con altro lavoro, bensì con qualcosa che impegni la mente! La forza fisica non consente più di dilatare il tempo per fare altro come nel “tempo adulto”. Le amicizie sono venute a mancare, le poche rimaste sono poco praticabili per insufficienza di forza.
Il periodo adulto, 1946–2016, era stato preparato da quello 1931–1946, ma quest’altro, 2016 e oltre, con quale scuola di vita lo affronto e con quale identità? Come costruirla? Durante il periodo adulto non mi chiedevo mai: cosa c’è dietro l’angolo? Ero io che costruivo il “dietro l’angolo”. Oggi non so cosa c’è dietro l’angolo, non sono sicuro se esiste qualcosa dietro l’angolo.
Il 2017 è l’anno di svolta, del taglio netto con il passato, l’identità che sfuma, la ricerca di nuovi ancoraggi di cui non conosco l’esistenza.
Il 2018 si è presentato come una immensa prateria da percorrere. Sto ten- tando di attrezzare una diligenza per percorrerla. Ho fatto l’analisi del tempo, non meteorico, constatando l’incredibile cambiamento.
Riposo: 9 ore per notte e altre 3 ore di sosta per recuperare. Attività casalinghe: 4 ore per colazione, pranzi, spesa, cucinare. Attività mediche, ludico-culturali, TV, 3 ore. Famiglia, amici, 2 ore. Rimangono 3 ore per le letture, le mie ricerche, scrivere, guardare internet, un sudoku.
Trasformare questa prateria è un compito. Ci provo! Certo che se qualcuno me l’avesse detto prima forse mi sarei attrezzato meglio per superare l’erba alta della prateria.
Toni Schiavon, “Mi sono sbottonato!”, libro primo, pag. 197